Brigitte Bardot, icona primigenia del cinema francese e figura controversa della cultura visuale e popolare, si è spenta all’età di 91 anni, come annunciato dalla Fondazione che porta il suo nome.
La silhouette inconfondibile di B.B. non era solo quella di un sex symbol sorto sugli schermi di Et Dieu… créa la femme (1956), ma un archetipo visivo che fece detonare l’immaginario femminile del secondo dopoguerra.
Nel ribaltare i codici estetici allora dominanti, Bardot non si limitò a recitare: incarnò un ethos estetico di libertà che attraversò cinema, moda, fotografia e arti visive, facendosi musa di creativi e artisti d’avanguardia.
La sua figura, come quella di poche altre nel pantheon della cultura del ‘900, si insinua nelle iconografie di Jean-Luc Godard e Louis Malle, nelle superfici specchianti delle copertine di riviste che ridefinirono il volto femminile, e nei collage post-pop che recuperarono la sua immagine come emblema di sovversione sensuale.
Bardot diventa così, nella narrazione storica dell’arte visiva, un nodo di congiunzione tra media differenti: cinema, fotografia di moda, pop art e performance.
Bardot è stata la sex kitten originaria, superstar della Nouvelle Vague francese e incarnazione di una sensualità femminile finalmente liberata. A diciotto anni ottenne una notorietà improvvisa e planetaria grazie al ruolo incendiario nel debutto alla regia di Roger Vadim, E Dio creò la donna (1956), film che infranse record d’incassi e tabù censorî con la sua ostentata carica erotica ambientata a Saint-Tropez. Nonostante l’accoglienza critica contrastata, il film segnò l’avvio della sua carriera e ne prefigurò la consacrazione internazionale.
Bardot attirò anche l’attenzione degli intellettuali francesi: nel 1959 fu al centro del saggio di Simone de Beauvoir Brigitte Bardot e la sindrome di Lolita, che la definiva una “locomotiva della storia delle donne”, innestando la sua figura su coordinate esistenzialiste e proclamandola la prima donna autenticamente libera della Francia del dopoguerra. La sua consacrazione definitiva arrivò nel 1963 con il ruolo di Camille nel capolavoro della Nouvelle Vague di Jean-Luc Godard, Il disprezzo, tratto dal romanzo di Alberto Moravia: un ritratto emotivamente spietato della fine di un matrimonio, sullo sfondo opaco e manipolatorio dell’industria cinematografica internazionale.
E a fissare Bardot in una sospensione ancora più crudele del cinema è stato Andy Warhol, che ne ha distillato il volto fino a farne una reliquia pop, immune al tempo ma non alla perdita. Warhol, instancabile catalizzatore di immagini — un motore di ricerca ante litteram capace di assorbire tutto ciò che era superficie, trauma, celebrità e morte — riconobbe in Bardot un’icona perfetta: non tanto per il suo erotismo, quanto per la sua disponibilità all’essere immagine.
Warhol incontrò Bardot per la prima volta al Festival di Cannes nel 1967, quando lei sostenne attivamente il suo tentativo di presentare Chelsea Girls dopo l’annullamento della proiezione ufficiale. Nel 1973, all’apice della celebrità, Bardot annunciò il ritiro definitivo dal cinema. Quello stesso anno Warhol ricevette l’incarico di realizzarne il ritratto: in una fase in cui stava spostando nuovamente il proprio baricentro dalla sperimentazione filmica alla pittura, è plausibile che abbia letto l’uscita di scena dell’attrice come l’occasione perfetta per fissarne il mito, trasformandolo definitivamente in immagine e in icona.
E, come ogni vera icona, continua a esigere una rilettura storica che sappia abbracciare l’intero spettro del suo impatto culturale.
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