Il Kunsthaus Zürich dedica una ampia retrospettiva a Lygia Clark, una delle voci più significative dell’avanguardia latino-americana.
È la prima mostra completa nell’area germanofona, realizzata insieme alla Neue Nationalgalerie di Berlino, e la più ampia mai costruita dopo il MoMA del 2014. Un progetto che non si limita alla ricostruzione storica, ma che rimette Clark nel suo habitat naturale: quello dell’esperienza diretta, dell’arte che si attiva solo nell’incontro.

If you hold a stone (Marinheiro só) / Hold it in your hand / If you feel the weight / You’ll never be late / To understand».
Questi versi tratti da una canzone di Caetano Veloso, divenuta famosa in tutto il mondo nel 1971, evocano un dialogo unico tra musica e arte. Veloso, il più importante esponente del «Tropicalismo», dedicò il brano all’artista brasiliana Lygia Clark, una pioniera che ha ridefinito radicalmente il concetto di arte.
Nata a Belo Horizonte nel 1920, Clark è una figura cardinale della modernità sudamericana, capace di scardinare la dicotomia autore/spettatore con un’urgenza che oggi appare ancora più radicale di ieri. Lungi dal cercare una forma definitiva, ha trasformato l’opera in un processo aperto, un dispositivo sensoriale che si completa solo quando qualcuno decide di entrarvi. È questa la sua rottura più incisiva: non l’abbandono della pittura o della scultura in senso tradizionale, ma la rinuncia al concetto stesso di “opera compiuta”.
Con il Neoconcretismo, movimento fondato a Rio de Janeiro nel 1959, Clark e i suoi compagni — tra cui Lygia Pape e Hélio Oiticica — hanno contestato la rigidità razionale del concretismo, sostituendo alla purezza geometrica l’incertezza fertile dell’intuizione. Il risultato è un’arte che rifiuta l’autonomia dell’oggetto in favore di un’esperienza incarnata, fluida, prossima al respiro e al gesto.
Dai “Bichos” a Caminhando: quando l’opera smette di essere oggetto
La retrospettiva analizza con rigore le quattro grandi fasi della sua ricerca. Dalla dilatazione dell’immagine nello spazio dei primi anni, si approda alle sculture mobili dei “Bichos”: organismi metallici articolati, che assumono forma soltanto nel confronto con chi li manipola. Non è una metafora, ma un principio operativo. Per Clark, l’opera deve reagire, mutare, negoziare la propria identità come un essere vivente.
Il taglio più netto arriva nel 1963 con Caminhando, un nastro attorcigliato che si consuma progressivamente attraverso un’azione performativa semplice quanto irrevocabile. La citazione del nastro di Möbius di Max Bill è evidente, ma Clark compie un passo ulteriore: elimina il feticcio dell’oggetto e porta l’opera a coincidere con l’atto stesso. «L’azione è ciò che produce Caminhando», scrive. Non esiste un “prima”, non esiste un “dopo”. Solo il gesto.
Le “proposiciones” e la terapia del quotidiano
Negli anni Settanta l’artista disinnesca definitivamente ogni residuo di materialità, concependo oggetti-attivatori, istruzioni d’uso, abiti sensoriali, maschere, occhiali che deformano la percezione. Le sue “proposiciones” non richiedono originali, ma corpi disponibili a esperire. È un linguaggio che interpella un’idea di guarigione non terapeutica ma antropologica: ristabilire un rapporto non alienato con ciò che ci circonda, rieducare la sensibilità attraverso materiali poveri — pietre, conchiglie, elastici — usati come prolungamenti del sé.
Questa tensione verso la costruzione interiore, che Clark definiva “strutturazione del sé”, risuona oggi con una sorprendente urgenza. Non perché anticipi pratiche partecipative contemporanee, ma perché le supera sul piano dell’etica e della necessità.
Una retrospettiva monumentale e problematica
La mostra del Kunsthaus, curata da Cathérine Hug in collaborazione con Irina Grun e Maike Steinkamp, raccoglie circa 120 opere storiche e 50 repliche partecipative realizzate dall’Associação Cultural O Mundo de Lygia Clark. La convivenza fra originali e repliche non è un compromesso, ma una sfida museografica che costringe l’istituzione a confrontarsi con l’impossibile: come esporre un’opera che esiste solo se viene attivata?
A Zurigo, questo paradosso è affrontato senza didascalismi, lasciando che il pubblico sperimenti — o rifiuti di farlo — la natura dialogica del lavoro. Una scelta coraggiosa, che restituisce la complessità di un’artista refrattaria alla musealizzazione.
In parallelo, il Haus Konstruktiv approfondisce le relazioni tra la Svizzera e il Brasile, in particolare il ruolo di Max Bill nella formazione della generazione neoconcreta. Un controcanto necessario che mostra come l’eredità di Clark non sia mai lineare, ma circolare, come le superfici mobile dei suoi “Bichos”.
Un’eredità che continua a interrogarci
Tra cataloghi, podcast, incontri pubblici e un calendario di visite guidate articolato in più lingue, l’operazione del Kunsthaus Zürich assume la forma di un ecosistema critico completo. Ma ciò che rimane, al di là dell’imponente apparato, è la fragilità ostinata di un’opera che chiede partecipazione non come spettacolo, ma come responsabilità.
Lygia Clark non ha mai cercato “un nome né un concetto”, come affermava lei stessa. Ha cercato il contatto. E oggi, in un tempo che moltiplica le distanze, quel contatto torna a essere un atto politico. Un invito a rimettere il corpo — finalmente — al centro dell’immagine.
INFO
«Lygia Clark. Retrospettiva»
Fino al all’8 marzo 2026
Kunsthaus Zürich, Heimplatz, CH–8001 Zurigo
www.kunsthaus.ch




