Intervista – RUMINIELLE: quando l’attimo e il dettaglio diventano emozione

La prima impressione che lascia la fotografia di Romina è quella di un respiro sospeso: un intreccio di dettagli che non restano semplici frammenti, ma si trasformano in universi.

La sua capacità non è solo quella di fermare il tempo, ma di ricostruirlo, di ridargli forma e senso, scolpendo immagini che diventano emozioni, visioni che restano impresse come tatuaggi luminosi.

Ogni particolare, nelle sue mani, diventa essenziale: un riflesso, un’ombra, un oggetto dimenticato sulla strada. Elementi che altrove sarebbero comparse silenziose, nelle sue narrazioni diventano protagonisti assoluti. Romina non guarda soltanto: incastona, ricama, intreccia. I dettagli sono il suo alfabeto, la sua lingua segreta, la chiave con cui apre la porta dell’immaginazione.

Con lei il tempo scorre in modo diverso, come se la realtà si incrinasse per lasciare intravedere altre possibilità. Seduti a tavola, camminando in città o perdendosi in un dialogo, il suo sguardo resta vigile, innamorato dell’attimo che si sta per dissolvere. Gli occhi le funzionano da macchina fotografica interiore, sempre in attesa del momento da sottrarre all’oblio.

In una Milano afosa e silenziosa, ho visto Romina fermarsi improvvisamente: sull’asfalto bollente, un fiore turchese abbandonato brillava come un miraggio. Lei si è chinata, lo ha contemplato, e con delicatezza lo ha fotografato, chiedendosi ad alta voce da dove provenisse, quali storie portasse con sé. In quel gesto c’era tutto il suo mondo: la capacità di innamorarsi dell’invisibile, di dare dignità poetica a ciò che sembra destinato a sparire.

Quel pomeriggio, tra scatti, silenzi e visioni, ho compreso che raccontare Romina non significa descrivere un’artista, ma tentare di tradurre in parole un sentimento: quello di chi trasforma la vita quotidiana in un atto di amore verso la bellezza nascosta delle cose.

LA COVER

L’INTERVISTA

Le tue opere sono, come tu stessa definisci, un’armoniosa miscela di estetica eterea, con l’obiettivo di creare opere stratificate, emozionali e uniche. Ci racconti come nasce un tuo progetto visivo e quali sono le fasi creative?

Siamo fatti di ricordi e delle reinterpretazioni che ne diamo. Non siamo mai uguali a noi stessi: siamo un continuo divenire, che si arricchisce e si espande come un’onda.
Tutto è iniziato perché, per me, il processo è sempre stato più importante del risultato — e lo è ancora oggi. Vivo la fotografia come qualcosa di quotidiano, istintivo, poetico. È il mio mezzo assoluto di conoscenza di me stessa.
Osservo in una direzione duale: il mondo fuori che si riflette dentro di me, e viceversa. La fotografia, è il risultato di questo equilibrio — o spesso disequilibrio — costante.
La mia bussola è creare qualcosa che arresti lo sguardo, che porti chi osserva in uno stato trasformativo, che lo faccia cercare delle risposte, o quantomeno lo faccia fermare.
Marina Abramović diceva che l’arte che insegue soltanto valori estetici è, per lei, incompleta. L’unica arte che le interessa è quella capace di cambiare. Le fasi creative cambiano ogni volta.

Ti definisci un’autodidatta. Cosa ti ha spinto a fotografare?

Fin da piccola ricordo di aver osservato il mondo con una sensibilità fuori dal comune. La mia prima esplorazione artistica è stata la scrittura. Appena imparato a scrivere, disegnavo e tenevo un diario pieno di riflessioni.
La fotografia è arrivata più tardi, a 17 anni, quando ho ricominciato la mia vita da zero, lontano da casa. Ho iniziato a fotografare in un momento molto difficile, quando mi sono trasferita definitivamente in Italia. In quel periodo, le parole della nuova lingua non mi sembravano sufficienti per esprimermi, così ho cominciato a espandermi attraverso le immagini.
Le prime fotografie e autoritratti li ho realizzati con un vecchio Nokia C3-00. Non avevo ancora una macchina fotografica, ma sapevo che ciò che conta davvero è il concetto, la composizione, l’emozione che desideri trasmettere.
La fotografia mi ha salvata. Mi ha aiutato a trasformarmi. D’altronde, nel Silenzio è cosa viva, Chandra Candiani scrive che il vuoto è creatore: vibra, informa, trasmette, ci permette di entrare in relazione.
I tuoi progetti visivi hanno una poetica interiore, come se fossero narrazioni di attimi.

Cosa cerchi di trasmettere e comunicare in ogni tuo progetto fotografico?

Simone de Beauvoir diceva che non ci si conosce mai davvero, ci si può solo descrivere. Io credo di farlo attraverso la fotografia.
Amo raccontare la vita con immagini e micro riprese, con leggerezza, ingenuità, luce e amore — nella speranza che possano comunicare sogno, bellezza e speranza. Per me, ogni attimo è una poesia: luce e ombra non sono in conflitto, ma si intrecciano in una simbiosi.
La mia visione poetica del mondo è radicata nel sognare, quella capacità umana che ci tiene aggrappati alla vita. Ma non si tratta di fantasia lontana dalla realtà: è piuttosto la possibilità di guardare con occhi autentici la magia dell’istante. È proprio questa fragilità, questo mutamento imminente, che amo inseguire. Perché ogni attimo è unico e non si ripete mai nello stesso modo.

Tu sei come una ricercatrice, una ricercatrice del dettaglio che, con la tua fotografia e i tuoi video, plasmi suggestioni. Quali sono gli ultimi dettagli che sei riuscita a raccogliere?

Questa domanda mi riporta alla mente un trend di qualche anno fa sui social: con un’app chiamata OneDay, le persone condividevano a fine anno un video realizzato con frammenti — foto e riprese — raccolti ogni giorno.
In questo periodo cerco di catturare l’impermanenza: di ciò che ci circonda e di ciò che siamo. In un mondo che cambia così rapidamente, cosa riusciamo davvero a trattenere e salvare? Cosa ricordiamo, in fondo?
La memoria è un pilastro fondamentale della nostra identità, della narrazione che facciamo di noi stessi e del mondo attorno.
Ultimamente mi emoziona raccogliere storie di persone che hanno inseguito un sogno, che hanno creato qualcosa, che hanno toccato e trasformato vite. Rimango meravigliata dalla vastità di queste esperienze. È una contaminazione creativa che vorrei condividere con più persone possibile, perché le storie degli altri ci invitano a essere più umani, più empatici, più uniti.

Spesso sei tu la protagonista delle tue foto. Che differenza c’è tra fotografare ed essere fotografata? E cosa preferisci?

Ho iniziato a usare il mio corpo come forma di esplorazione di me stessa e della mia femminilità.
Questo esperimento mi ha permesso di attraversare i confini tra l’etereo, l’erotico, il sogno e il desiderio.
Con le immagini ho costruito storie come inviti a guardare il corpo con poesia, a riscoprirlo.
Le foto in cui sono protagonista sono il mio diario: un archivio delle mie molteplici trasformazioni.
Ho scoperto, la prima volta che sono stata fotografata da qualcun altro, che se non mi sento in confidenza con chi c’è dietro l’obiettivo, il mio corpo si irrigidisce. Diventa un corpo che si chiude, si protegge.
Sono sempre stata empatica con i miei soggetti, ma da quel momento ho iniziato a prestare ancora più attenzione alla connessione. Preferisco fotografare piuttosto che essere fotografata.

Il fotografo Burk Uzzle ha detto che la fotografia è una storia d’amore con la vita. Ti riconosci in questa affermazione?

Non potrei essere più d’accordo. Ma penso anche che possa essere una critica o una ribellione nei confronti della vita stessa. In ogni caso, finisce sempre per celebrarla.

Cosa è per te l’estetica?

Per me l’estetica è sensibilità che si traduce in espressione artistica.
Nulla si crea senza sensibilità, senza empatia.
La vita stessa si esprime attraverso l’estetica: tutto, nella natura, si manifesta con una forma estetica — che esiste per sé.

Se dovessi scegliere tre parole chiave per definire la tua arte, quali sarebbero?

Eterea, poetica, rifugio.

Potresti elencare i tuoi cinque artisti preferiti di tutti i tempi?

Andrei Tarkovskij, Gilbert Garcin, Domenico Gnoli, Pinuccio Sciola, Alphonse Mucha.

Ricordi la prima mostra che ha illuminato la tua visione artistica? E l’ultima?

Quella che mi ha illuminata è stata la mostra di Marina Abramović alla Royal Academy of Arts di Londra.
L’ultima che mi ha colpita è stata alla Fondazione Prada, con l’opera di Carsten Höller.
Ero a Milano per poche ore, una toccata e fuga, ma avevo del tempo libero e ho deciso di visitare la Fondazione.
Ero da sola, immersa in un buio profondo, a toccare una barra di ferro, senza sapere cosa aspettarmi.
Nel corpo ho percepito emozioni mai provate prima. Non mi sono mai sentita così viva e così profondamente dentro il mio corpo come in quel momento.

C’è un desiderio artistico che non hai ancora esaudito?

Sì. Organizzare la mia prima mostra personale.
Sogno un’esperienza non solo visiva, ma anche sensoriale, immersiva, intima.
Mi immagino il percorso della mostra come un cerchio — che in realtà non si chiude mai.

Se dovessi definirti in terza persona, come ti descriveresti?

Questa domanda mi fa venire in mente un video trovato per caso su YouTube: parlava di come il volto che vediamo allo specchio non sia mai lo stesso che vedono gli altri. Un concetto simile a quello di Pirandello in Uno, nessuno e centomila.
Mi descriverei così: minuta, calda, osservatrice.

Cosa pensi dell’intelligenza artificiale applicata all’arte? Può la tecnicità superare la creatività?

È sicuramente una grande rivoluzione, e al tempo stesso una sfida.
In un mondo in cui il confine tra immagine umana e immagine artificiale si fa sempre più sottile, sento che sarà ancora più preziosa la nostalgia del ritorno alla semplicità, all’autenticità.
Accettare l’imperfezione, guardare il mondo con empatia, documentarlo nella sua fragilità… e, forse, viverlo un po’ di più fuori dalla rete.

Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa per la prima volta? E soprattutto, cosa hai fatto?

Viaggiare da sola. 2 anni fa.

Cosa ti fa battere il cuore?

Leggere Simone de Beauvoir. Le stagioni.
Camminare all’alba, quando la città ancora dorme.
Il profumo della carta, il wabi-sabi, l’autenticità, l’umanità, l’empatia.
Guardare vecchi album fotografici.
Un film con una fotografia e un’estetica che mi commuovono e mi ipnotizzano.

Che rischio vorresti correre oggi?

Dedicarmi al 100% alla fotografia.
Costruire il mio studio.
Creare lì, senza la paura di fallire.

Cosa ci dovrebbe essere nella tua wunderkammer?

Oggetti creati con il cuore e con talento da persone che ho avuto la fortuna di incontrare: artisti, designer, stilisti, fotografi, scrittori. Non importa quanto siano famosi: ciò che conta è che abbiano il tocco umano, il genio umano.
Qualcosa che mente e mani abbiano costruito.
Non potrei fare a meno della macchina da cucire di mia nonna e del suo vinile.

Se non avessi fatto la fotografa, cosa ti sarebbe piaciuto fare?

La ballerina.
Oltre alla fotografia, la danza è una dimensione in cui perdo la nozione del tempo.
Il mio corpo si muove nello spazio senza mai stancarsi.
Mi commuovo ogni volta che entro in una sala e vedo gli specchi.

L’ARTISTA

Ruminielle è un progetto creativo e uno studio guidato da Romina Chetraru. Si specializza nella realizzazione di editoriali artistici e microfilm per artisti e brand con un orientamento etico e guidati da valori, attivi nei settori della moda, del design e del lifestyle.

Il suo approccio si fonda su un’armoniosa fusione di estetiche eteree, con l’obiettivo di creare opere stratificate, emotive e uniche.

LA GALLERY

www.ruminielle.com/
instagram.com/ruminielle

HESTETIKA ART Next Generation

Iscriviti
alla newsletter di Hestetika