Lucia Manetti ci porta nel suo mondo immaginario fatto da una scrittura, sospesa tra prosa e poesia, tra immagini e simboli e ci conduce attraverso scenari impossibilmente reali in cui tempo e natura si dissolvono in dettagli di vita quotidiana e schemi collettivi.
In Giocoforza, il suo ultimo libro edito da Centro scritture ECS, Lucia volteggia con il dualismo creazione-distruzione, delineando un “wordbuilding” in cui tecnologia e natura si intrecciano, accomunate da una violenza creatrice e da un’intensità che sfida la percezione comune.
Il mondo di Giocoforza non è solo uno spazio da leggere, ma da abitare, un luogo dove l’arte e la scrittura diventano strumenti per scavare nella realtà e riflettere sul potere trasformativo dell’immaginazione.
Tra girasoli ossessivi e scenari distopici, l’autrice ci parla di come il consumo di immagini e parole diventi un atto di continua trasformazione, dove ciò che viene osservato è anche divorato e rimodellato, per poi riemergere in nuove forme e prospettive
Abbiamo incontrato Lucia Manetti alla scoperta di una poetica che cerca l’assurdo e l’immaginazione come strade per esplorare l’essenza del vivere. È un viaggio tra gli spazi della mente e quelli fisici, tra il rumore del mondo e la quiete della riflessione artistica.
L’INTERVISTA
Scrivi: Inizialmente mi sembrava il cardine della poetica di Giocoforza fosse il “guardare con le parole, scrivere con le immagini”, ma dopo varie riletture mi sono resa conto che vedere, scrivere, leggere, vivere, altro non sono che verbi di consumo. Ci spieghi l’essenza del tuo libro?
In Giocoforza c’è una continuità tra la tecnologia e la natura, accomunate anche (ma non solo) da una violenza creatrice. Questa prospettiva influenza il modo in cui le cose entrano a far parte dello sguardo dell’autore, che non scivola su di loro in contemplazione, lasciandole intatte, bensì le divora, le rimastica e le rimette in scena in una versione nuova.
Quando si osserva qualcosa, è come se la masticassimo, e poi la riconsegnassimo al mondo esterno in una forma diversa: l’abbiamo consumata come una materia prima o un semiprocessato, trasformandola nelle nostre azioni, decisioni, idee, opere. Proprio su questa base, il libro mette l’accento sul gioco di forze che lega creazione e distruzione, si propone come un mondo assurdo da attraversare, un’esperienza che si produce dalla realtà, agendo al tempo stesso contro di essa.
Girasoli, animali fantastici, città distopiche, suoni, immagini e parole. Il tuo libro è un contenitore di sensazioni. Quale è la chiave di lettura?
Il wordbuilding, cioè la progettazione di uno spazio nuovo, destinato a strutturarsi su vari testi, e media, potenzialmente diversi. Giocoforza è l’inizio di un mondo, composto da prose, poesie e disegni, raccolti nell’arco di alcuni anni. Mi piace l’idea di dare vita via via a dei contenuti che vadano ad aggiungere sempre più senso e dettaglio alla sua mappa, che chi legge possa davvero percorrerlo come uno spazio fisico.
Qui ha forse influito la mia formazione nell’ambito della concept art per videogiochi, ma anche il marketing, disciplina che ha inspirato di fatto l’approccio alla costruzione di mondi transmediali o multimediali, per aumentare le vendite di serie, libri, etc.
Il mondo di Giocoforza attinge da un’interiorità che vuole essere assolutizzata: essere tutto per eliminare l’Altro. L’illustrazione in copertina mostra una ragazza che corre, ma è non chiaro se sfugga dall’ombra o insegua il coniglio davanti a lei – riassume un po’ questa tensione continua tra la dimensione individuale (mondo interno) e quella collettiva (mosto esterno).
Chi sono i protagonisti del tuo libro?
Ogni sezione ha stili e protagonisti diversi, ma ci sono degli elementi ricorrenti: più qualcosa si ripete, più la sua esistenza si rafforza. Nella prima sezione troviamo i temi classici della morte e della rinascita, mentre i protagonisti della seconda sezione, di sapore futurista, sono le macchine e la città. Nella terza, i testi attraversano spazi pubblici, come banche e ospedali, e spazi interni, come la casa – potremmo dire che i personaggi sono gli spazi stessi. La quarta sezione è ancora più intima, si parla principalmente della possibilità del rapporto con l’altro e dei sentimenti. L’ultima sezione, l’unica in forma di racconti brevi, ha come protagonisti vari animali fantastici, ma anche il brutto tempo e altri fenomeni atmosferici. Giocoforza invita i lettori a non cercare un senso, bensì a scendere in se stessi ed abbracciare l’assurdo, l’immaginazione.
Che ruolo giocano le tue illustrazioni in “Giocoforza”?
Le illustrazioni sono state un tema dibattuto nel corso della creazione del libro. Non dovevano essere troppe per non distogliere l’attenzione dai testi, tuttavia era importante che dessero la loro versione delle cose. Giocoforza è anche un libro sul guardare e su come lo strumento che si usa per indagare o parlare delle cose, influisce sulle cose stesse. L’illustrazione, così come la poesia in versi, la prosa poetica e il racconto, è uno degli strumenti che ho voluto utilizzare per costruire lo spazio e i vari elementi del libro. Illustrazioni e testi sono due facce della stessa medaglia.
Ciò non vuol dire che rappresentino nello stesso modo, sono piuttosto due manifestazioni diverse di un oggetto fuori campo.
Su larga scala, penso che l’apertura della poesia a media diversi, possa favorire un mescolamento di pubblico, ibridazioni, servendo la causa la creatività assoluta, l’emergere di nuovi mondi. La poesia deve trovare il suo posto in tutto questo, respirare la realtà, o non potrà cambiarla.
Se dovessi scegliere tre parole chiave per definire il tuo libro quali sarebbero?
Girasoli, girasoli, girasoli (tre parole identiche, un’ossessione).
Una delle forze motrici della creazione in Giofoforza è l’ossessione per la realtà, come se per cercare di comprenderla la si aprisse, la si vivisezionasse, e proprio per questo però, il suo mistero diventa più profondo e ineffabile.
Potresti elencare i tuoi cinque artisti preferiti di tutti i tempi?
È una domanda molto difficile, a cui spero si possa rispondere in modo molto semplice.
Max Ernst è forse uno degli artisti che stimo di più in assoluto e a cui mi sento più vicina per sensibilità. Abbiamo in comune una passione per i pennuti (che emergerà più distesamente nel mio prossimo libro), il suo modo di distruggere il senso delle cose, ma comunque creativamente, affermando la supremazia del mondo interiore su quello esteriore. Sono molto legata al suo romanzo per immagini “Una settimana di bontà”, che ho letto la prima volta quando avevo diciassette anni.
In classifica anche Hieronymus Bosch, maestro del deforme e dell’assurdo, Kazimir Malevich, Michelangelo, Botticelli, per dirne alcuni.
Ricordi la prima mostra che ha illuminato la tua visione artistica? E l’ultima?
Non ricordo proprio una prima mostra, ma una delle esperienze più significative degli ultimi anni è stata senz’altro la mostra su Hito Steyrel, “I WILL SURVIVE”, allo Stedelijik Museum di Amsterdam. La sua padronanza dei media, la gamificazione della mostra stessa, nonché la sua maestria nell’assorbire e restituire il contemporaneo mi sono sembrati nel complesso avvincenti.
Mi sono domandata come avrebbe potuto essere una scrittura simile e quale idea del mondo può rifornire così vivacemente l’arte. Una follia davvero familiare, ho pensato che non avrei mai voluto abbandonare quell’universo virtuale che aveva creato. Di recente, ho visto a Torino la mostra di Thomas Bayrle “Form Form, Superform”, che ho davvero apprezzato per l’interazione ben congegnata di marketing e macchine, per analizzare gli esseri umani come topi in un laboratorio. Sperimentare il punto di vista del topo e della macchina, è qualcosa che mi affascina moltissimo e fa sicuramente parte di ciò che cerco di fare con la scrittura.
Se dovessi definirti in terza persona, come ti descriveresti?
Una persona molto tranquilla.
Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa per la prima volta?
Penso sia stato la settimana scorsa.
Cosa hai fatto?
Ho provato delle nuove arti marziali dopo svariati anni di Taekwondo.
Apparentemente questo non c’entra molto con il libro, ma in realtà, il tema del controllo è senz’altro presente in Giocoforza, così come il concetto di allenarsi a saper scrivere in qualsiasi condizione ed orario, applicando una disciplina, una regola. Una creazione disciplinata, un rubinetto che si può chiudere ed aprire a piacimento, è una sfida importante per chiunque abbia una personalità, diciamo, creativa.
Cosa ti fa battere il cuore?
Gli animaletti, specialmente i tucani e i conigli.
Se fossi la direttrice di una rivista d’arte, chi vorresti che comparisse in copertina? E perché?
Uno degli artisti mi sembrano più interessanti al momento è Refik Anadol, per la sua capacità di riflettere sulla tecnologia, sull’uomo e la creatività attraverso una specie di allucinazione algoritmica. Mi è capitato di vedere per la prima volta alcune sue opere mentre stavo scrivendo una serie di esperimenti inediti tra prosa e poesia utilizzando l’AI, chiamati “Machines are singing” (stanno cantando ma anche scimmiottando, dal francese singer) e non poteva non colpirmi un video della sua installazione “Machine Hallucinations”, in quel momento al MoMa.
Probabilmente farei questa scelta perché l’arte di Refik incarna il concetto di creare mondi continui, distruggendo e ricostruendo il concetto della realtà: le macchine non sembrano più per noi, ma in noi, nella nostra natura.
LA GALLERY
L’ARTISTA
Nata a Siena nel 1992, di base a Torino, Lucia Manetti ha collaborato con la rivista Hestetika dal 2015 al 2018, è attiva nel tech dal 2016 e lavora attualmente come direttore marketing per un’azienda di software francese nell’ambito della cybersecurity. Laureata con una tesi di ricerca su Ildegarda di Bingen, diplomata in Concept Art per videogiochi, Lucia ha una formazione umanistica, artistica ed economica. Alcuni dei suoi testi sono comparsi in riviste online come Nazione Indiana, NiedernGasse e Multiperso.
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