Kety Fusco_Credits Adriana Tedeschi

Intervista – KETY FUSCO l’arpa si fa rivoluzione sonora e visiva

Ci sono strumenti che portano con sé secoli di immaginario. L’arpa, ad esempio, è da sempre associata a un’aura angelica, celeste, rassicurante.

Kety Fusco, invece, la trascina fuori da ogni cliché: la immerge sott’acqua, ne distorce i timbri, la rende carne viva e materia sonora incandescente. Il suo nuovo progetto, BOHÈME, non è soltanto un album, ma un attraversamento: un viaggio che combina sperimentazione acustica e tecnologia, linguaggio visivo e immaginari costruiti con l’intelligenza artificiale, senza mai perdere un cuore poetico e viscerale. Fusco non si limita a suonare: scardina, frattura, disorienta, obbliga a un ascolto radicale.

L’incontro con lei è un confronto con l’idea stessa di estetica, con il bisogno di verità che può abitare un suono. Un racconto di libertà e disobbedienza, dove l’arpa diventa strumento di rivoluzione intima e sensoriale.

Kety Fusco Credits Sharon Ritossa & Gabriele Ottino

L’INTERVISTA

BOHÈME si apre con un manifesto: “Hi, this is Harp”. Come nasce l’urgenza di dichiarare – o forse ridefinire – che cosa sia, oggi, un’arpa?

Un brano che apre una porta su un territorio sconosciuto. Mette alla prova, spiazza.
In quel pezzo c’è solo arpa, ma non la si riconosce subito, ed è esattamente quello che volevo. Ho manipolato il suono, l’ho distorto, l’ho portato ai margini della sua identità acustica. Non è l’arpa che accompagna, non è quella dei salotti o delle orchestre: è uno strumento che respira, si contorce, e si libera della sua immagine angelica per diventare altro. Chi ascolta per la prima volta può non capire subito cosa sta succedendo, ed è giusto così. Viviamo in un mondo in cui si cerca continuamente il familiare, il riconoscibile, il rassicurante. Io invece voglio il contrario: disorientare, creare uno spazio dove l’ascolto non sia passivo. Per questo ho scelto proprio questo brano come apertura. Se riesci ad ascoltarlo senza cercare riferimenti, se accetti quella voce spoglia e radicale, allora sei pronto per entrare nel mondo di BOHÈME. È un invito: non ti porto dove già sei. Ti porto dove non sai ancora di poter arrivare.

Hai registrato suoni sott’acqua, trasformato la materia acustica dell’arpa in altro da sé. Che tipo di esplorazione è stata, anche sul piano fisico ed emotivo?

Mi sono ispirata al lavoro di Andy Cavatorta, che nel progetto AquaSonic ha costruito strumenti pensati per suonare sott’acqua, e a quello di Jana Winderen, che registra suoni subacquei e impercettibili, rendendo udibile ciò che normalmente resta nascosto. Il loro approccio mi ha profondamente colpita: mi ha spinta a cercare, anche con l’arpa, un modo per farla risuonare in una dimensione altra. È come se avessi voluto immergere lo strumento — e me stessa — in un mondo parallelo, ma che esiste già: il nostro, solo visto da un’altra profondità. All’inizio è stato frustrante. Pensavo che sarebbe bastato immergere l’arpa per ottenere subito qualcosa di magico. Invece no: ho dovuto distruggere diversi strumenti per capire davvero come lavorare con l’acqua. Perché un’arpa, sott’acqua, non suona. O meglio, suona solo se si trova il modo giusto: immergendo la tavola armonica, si generano chorus naturali, vibrazioni che non esistono nell’atmosfera, quasi come se l’arpa imparasse una nuova lingua. Ma registrare quei suoni è complesso: ogni piccolo movimento del corpo si amplifica, ogni tocco è rumore, e al tempo stesso poesia. È stata un’esplorazione intensa, e in realtà appena iniziata. Sto costruendo una vera e propria libreria di suoni subacquei dell’arpa. Ne ho già registrati diversi, ma voglio continuare: il mio sogno è aprire un nuovo mondo timbrico a disposizione di compositori, produttori, e chiunque voglia spingersi oltre i confini del suono conosciuto.

BOHÈME sembra essere anche un progetto visivo, oltre che sonoro. Come lavori sull’immaginario che accompagna la musica?

La mia musica è strumentale, e questo per me significa libertà. Chi ascolta può immaginare quello che vuole, costruire mondi, storie, visioni. Non ci sono parole che guidano, c’è solo l’intuizione. Ma con BOHÈME ho sentito il bisogno di accompagnare questa libertà con un immaginario che fosse anche mio, un mondo da condividere, da costruire a più mani. Già con The Harp – Chapter I avevo iniziato a esplorare il linguaggio visivo, raccontando, attraverso l’arpa, una sorta di fine del mondo. Con BOHÈME, invece, ho scelto una provocazione ulteriore. Ho deciso di lavorare con due artisti visivi con cui collaboro da tempo, Sharon Ritossa e Gabriele Ottino. Insieme abbiamo generato tutte le immagini del mio live show con l’intelligenza artificiale. Nel mondo della musica indipendente, l’AI è spesso vista come una minaccia, qualcosa di “sporco” o “contro natura”. Lo capisco. Anch’io ho molte riserve, soprattutto quando si parla di musica. Ma con le immagini è stato diverso: è come se qualcuno avesse collegato degli elettrodi al mio cervello e proiettato ciò che sento quando suono. Era da sempre il mio sogno: mostrare cosa accade dentro di me mentre suono, senza doverlo spiegare. Con i visual di BOHÈME accompagno il pubblico in un viaggio. Restano spazi aperti, non didascalici, ma decido io il paesaggio emotivo in cui ci muoviamo: un deserto, un abisso acquatico, una distorsione della realtà. Ogni album per me è un’evoluzione, un passaggio. Non ho mai cercato l’approvazione, e non lo farò adesso. Lavorare con l’arpa come lo faccio io è già una sfida, e scegliere di affiancarle l’AI è stato un modo per andare ancora più lontano. Do esattamente l’opposto di ciò che ci si aspetta. E forse, proprio per questo, qualcuno riesce a vedersi meglio.

L’interazione con l’intelligenza artificiale è una delle chiavi del progetto. Come hai concepito questa relazione? L’AI è per te un interlocutore, uno strumento o una nuova forma di alter ego creativo?

L’intelligenza artificiale non è il cuore del mio progetto, ma una presenza laterale, un’entità con cui dialogo. L’arpa resta sempre al centro: è lei che guida, che genera, che mi rappresenta. La tecnologia, l’AI, le immagini — sono estensioni, strumenti di relazione, ma non sostituzioni. Nel percorso di BOHÈME, l’AI è entrata sul piano visivo. Ho costruito tre videoclip, ognuno con un’identità temporale precisa. Il primo è BLOW: un video realizzato in modo artigianale, come siamo abituati a fare da sempre. Un giorno di riprese, costumi ispirati agli anni ’70, un’estetica che richiama il passato. Ma la musica è la mia: contemporanea, inquieta, libera. Ho voluto lanciare l’album iniziando proprio da lì, da un’immagine che sa di “già visto”, come a dire: vi accompagno da un tempo che conoscete, ma preparatevi a perdervi. Il secondo è SHE, con la voce narrante di Iggy Pop. Qui tutto cambia: il visual è generato interamente in AI, non c’è narrazione lineare, ma un viaggio visivo straniante, ipnotico, che per me rappresenta il futuro.
E poi ci sarà il terzo, che uscirà con l’album: quello è il presente. Il punto in cui passato e futuro si fondono. Per me l’AI non è mai usata “al posto di”. È una cooperazione. Senza il mio sguardo, le mie decisioni, la mia estetica, quei visual non esisterebbero. Non è la macchina a creare, ma l’interazione tra me, l’arpa, e lei. È un triangolo. Ed è proprio da questa triangolazione che nasce qualcosa di potente: nel live, questa unione genera un’esperienza immersiva, che risucchia chi guarda in un mondo sospeso. Il mio.

BOHÈME è anche un progetto multisensoriale. Che tipo di esperienza ti interessa creare per il pubblico?

Non cerco mai di piacere. E non mi interessa che alla fine qualcuno mi dica semplicemente “è stato bello”. Mi interessa, piuttosto, che chi ascolta — o guarda — si ponga una domanda. Anche piccola. Anche scomoda. Se un’opera viene approvata troppo in fretta, allora qualcosa in me si svuota. Ho bisogno che la mia musica attivi un dialogo interiore, che lasci una traccia non immediatamente decifrabile. Che convinca o che destabilizzi, ma che spinga a pensare. Con BOHÈME, non voglio solo coinvolgere i sensi. Voglio creare una fessura, una piccola crepa in cui qualcosa può entrare.
Non è importante che tu sappia spiegare cosa hai provato. Mi basta che, uscendo da quel mondo, ti resti addosso una sensazione che non sai nominare. Per me, quello è il vero impatto sensoriale: quello che non si può tradurre con le parole.

Il tuo lavoro ha una forte componente sperimentale, ma conserva un’anima poetica. Come trovi equilibrio tra rigore tecnico e abbandono emotivo?

Sono una persona profondamente istintiva. Creo sempre partendo dal cuore, da un’urgenza emotiva che non so controllare. Eppure, paradossalmente, è proprio questa natura impulsiva che mi ha costretto a sviluppare un certo rigore. Mi annoio facilmente, e questo mi ha insegnato a non disperdere l’energia. Quando cerco un suono, ad esempio, scrivo esattamente cosa sto cercando, mi do delle regole. È come se la noia mi avesse educata alla precisione, per non perdermi in mille strade inutili. Anche quando compongo, tutto nasce dall’abbandono. Ma poi arriva una seconda fase, quella più tecnica, più produttiva, in cui ho bisogno di ordine. Perché sono iperattiva, rischio sempre di iniziare troppe cose insieme e perderne il senso. Allora mi obbligo a un metodo, non per limitarmi, ma per incanalare la mia energia creativa in una direzione chiara. L’equilibrio tra rigore e poesia non lo cerco: nasce da questa lotta continua tra le due parti di me.

In un’epoca in cui la sperimentazione viene spesso incasellata in nicchie, ti senti più vicina al mondo dell’elettronica, dell’arte contemporanea o della musica classica reinventata?

La cosa bella del mio progetto è che non può essere incasellato da nessuna parte — ma in un certo senso può esistere dappertutto. Mi piace pensare che il mio lavoro sia un piccolo cortocircuito. L’arpa è il mio mondo, e in quello spazio ci sono solo io. Nessun riferimento diretto, nessun confronto. Ci sono altri strumentisti classici che fanno ricerca, certo, ma quello che faccio io con l’arpa è qualcosa che appartiene solo al mio percorso. Mi è capitato di suonare in festival di elettronica, in contesti di musica contemporanea, ma anche in spazi dedicati alla classica, e perfino in un festival pop. Ed è lì che ho capito che quello che propongo non è un genere: è un linguaggio. Chi mi ascolta non deve riconoscere uno stile, ma entrare in un immaginario. Non mi sento parte di una scena, ma nemmeno fuori da tutto. Sono in transito. E forse questa è la mia vera appartenenza: l’assenza di confini.

Mi fai una lista dei tuoi cinque artisti preferiti in assoluto?

• De Andrè
• Christine Sun Kim
• Marina Abramović
• Banski
• Björk

Cosa è per te l’estetica?

Per me l’estetica non è decorazione, e nemmeno piacere.
È una forma di verità. È il modo in cui scelgo di mostrare ciò che mi abita dentro, anche quando è scomodo, anche quando non si capisce subito. Oggi l’estetica, soprattutto sui social, è inquinata: è diventata un codice da ripetere, qualcosa che deve colpire, rassicurare, funzionare. Ma io non cerco di funzionare. Cerco di esistere. La mia estetica è una decisione istintiva, non una strategia. È fatta di tensione, materia, rifiuto del perfezionismo.

Quali sono le parole chiave per descrivere la tua opera?

Verità – Frattura – Disobbedienza – Ricerca – Trascendenza

Come ti definiresti in terza persona?

Kety Fusco è difficile da spiegare, ma impossibile da dimenticare (nel bene e nel male).

Cosa ti fa battere il cuore?

Purtroppo… l’extrasistole! 🙂 Sono una persona estremamente ansiosa e il mio cuore ha un carattere tutto suo. È anarchico, imprevedibile, spesso in disaccordo con la mia testa. Il mio cuore batte per ciò che non è sicuro. E forse, in fondo, è il suo modo di restare vivo.

Quando è stata l’ultima volta che hai fatto una cosa per la prima volta? E soprattutto cosa hai fatto?

È da 40 minuti che cerco di rispondere a questa domanda, ma in verità non lo so. Sono sempre entusiasta quando faccio qualcosa, anche le cose più piccole; quindi, ogni volta mi sembra una “prima volta”. Perché cambiano le persone, cambiano i luoghi, cambia l’aria. E allora anche ciò che conosco si trasforma. Forse non sono le cose a essere nuove. Sono io, ogni volta, che ci entro con occhi diversi.

Che rischio vorresti correre oggi?

Non dover più mostrare nulla, non aggiornare, non spiegare, non costruire contenuti. Solo creare, e basta. Vorrei rischiare di essere dimenticata online, ma riconosciuta per ciò che faccio davvero. In un mondo in cui esisti solo se posti, per me il vero atto radicale sarebbe non farlo più. E vedere se la musica sa ancora parlare da sola.

L’ARTISTA

Con due master in arpa classica e una vasta esperienza in orchestre ed ensemble di musica da camera, Kety Fusco ha trasformato la sua solida formazione accademica in un trampolino verso un’esplorazione personale ed artistica di innovazione e sperimentazione sonora, ridefinendo il ruolo dell’arpa nella musica contemporanea. Nel corso degli anni Fusco ha collezionato performance su prestigiosi palcoscenici internazionali (Montreux Jazz Festival, Paleo Festival, La Notte della Taranta). Tra i momenti salienti, l’invito a suonare alla Royal Albert Hall di Londra, dove ha riscosso il tutto esaurito. Oltre a questi importanti traguardi, Fusco ha fondato il Floating Notes Festival, evento che ha accolto nomi di grande fama come Mike Cooper, Daniela Pes e Lubomyr Melnyk. Kety si è inoltre esibita alla celebre Notte della Taranta, sotto la direzione artistica di Dardust e accanto a Stromae.

Tra i suoi progetti, spicca poi la libreria sonora ‘Beyond The Harp’, premiata come “Miglior Database del Mese” da Musitech, che ha ampliato le possibilità creative per compositori e produttori. La sua musica è stata inoltre selezionata e trasmessa da Iggy Pop su BBC Radio, confermando la sua reputazione internazionale. Nel corso della sua carriera, Fusco ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui la chiamata a esibirsi al Global Festival of Action delle Nazioni Unite, ed è stata scelta da Agnes Obel per aprire i suoi concerti. Ha composto la colonna sonora per il programma ‘Voci in Barcaccia’ di RAI Radio3 e preso parte come compositrice e attrice, al fianco di interpreti come Lena Garrel e Carlotta Gamba, al prossimo film diretto da Michele Pennetta,’ETERA’, la cui diffusione è prevista nel corso del 2025.

Kety è stata anche selezionata per partecipare al prestigioso International Visitor Leadership Program (IVLP), il programma ufficiale del Dipartimento di Stato americano che da oltre 80 anni riunisce personalità destinate a lasciare il segno nel proprio ambito. Un invito esclusivo, possibile solo su nomina diretta: nel caso di Kety Fusco, la candidatura è stata sostenuta dalla Montreux Jazz Artists Foundation e dall’Ambasciata degli Stati Uniti a Ginevra, che l’hanno
riconosciuta come una delle voci più autentiche e anticonformiste della scena musicale contemporanea.

Dal 20 settembre al 12 ottobre 2025, Kety Fusco sarà negli Stati Uniti per tre intense settimane di incontri diplomatici e culturali, passando per città chiave come Washington D.C., Baltimora, Filadelfia, Milwaukee e Los Angeles. Il programma prevede scambi con istituzioni, università, festival e protagonisti della musica internazionale – tra cui la Library of Congress, il GRAMMY Museum, Universal Music Group e l’Herbie Hancock Institute of Jazz – con l’obiettivo di costruire ponti tra scene musicali e culturali diverse.

Questa partenza coincide con l’uscita del nuovo album BOHÈME (19 settembre 2025), un viaggio sonoro che sfida le convenzioni, trasformando l’arpa in una voce ribelle capace di evocare libertà, fragilità e resistenza.

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