In un’epoca in cui l’arte sembra costretta a giustificare la propria esistenza in termini di utilità o spettacolo, l’opera di Bob and Roberta Smith si erge come un controcanto necessario.

Courtesy MAAB Gallery and the artist
Con parole dipinte, slogan lucidamente ambigui e una pratica artistica che affonda le radici tanto nella pittura quanto nell’attivismo, l’artista britannico – nonostante il nome collettivo – agisce da solo, ma parla a molti. Le sue opere, che si muovono tra l’oggetto pittorico e il manifesto visivo, sono al tempo stesso strumenti di resistenza culturale e atti di generosa apertura al dialogo.
Bob and Roberta Smith non si limita a evocare la relazione tra arte e società: la incarna. Dalle aule scolastiche alla scena politica, passando per i palchi musicali, il suo lavoro è un invito continuo a riconoscere il potere trasformativo dell’immaginazione.
In questa conversazione, si riflette sull’urgenza della sincerità nell’arte, sul ruolo cruciale dell’educazione artistica e sul persistente sogno utopico inscritto in un semplice slogan: Make Art Not War.
L’Intervista
Il tuo lavoro fonde arte visiva e linguaggio scritto in modo diretto, quasi artigianale. Cosa ti affascina del gesto di scrivere come forma d’arte?
È questione di firma, di tracce che si vogliono lasciare… fatte da persone… fatte da me. È più evidente quando scrivo direttamente al pubblico, ma è presente anche negli altri lavori: immagini, video, oggetti. Gli esseri umani hanno le mani, e mani, strumenti e materiali sono una meraviglia.
I tuoi slogan sono spesso ironici, ma anche accorati. L’arte può ancora permettersi il lusso della sincerità?
Mi interessa ciò che le persone portano via con sé dalle mie opere. Gli slogan sono per lo più sinceri, ma non sempre. A volte perfino la sincerità è una provocazione. In generale non mi piace molto l’arte ironica o umoristica. Capisco che qualcuno possa pensare che sia ciò che faccio. La sincerità è importante, ma può diventare tediosa, sembrare ostentazione morale. Ogni slogan che creo è un’indagine su un aspetto della nostra natura: che sia autentico, ingannevole, maligno o sincero. La mia è un’arte che invita le persone a partecipare: a pensare, a creare, a rispondere.
Uno dei tuoi principali slogan è “Make Art Not War”. L’hai creato nel 1997 ma non pensi che sia attualissimo? E a distanza di quasi trent’anni non pensi che sia solo una grande utopia?
Ho realizzato “Make Art Not War” in risposta alla prima guerra in Iraq. In quel periodo si era tenuta una Documenta a Kassel considerata politica, ma la guerra andava avanti. Le immagini della “strada per Bassora” inondavano i nostri schermi e le nostre menti con orrori indicibili. Sentivo che l’arte avesse ben poca voce in quel dialogo, così creai “Make Art Not War” come risposta satirica agli artisti. Dieci anni dopo, il lavoro è stato acquistato dalla Tate Gallery. La Tate ne ha realizzato decine di migliaia di cartoline, stampe, magliette e calamite, e l’immagine continua a circolare. Ho iniziato a vederla diversamente. La sincerità del pezzo ha preso il sopravvento.
“Make Art Not War” ha ormai vita propria. Io mi considero oggi un pacifista non testato. La semplicità idealista dello slogan è inquietante, ma gli eventi recenti – come la decisione del primo ministro britannico Keir Starmer di dirottare fondi dalla cooperazione internazionale all’esercito – mi ricordano quanto sia necessario ribadire “arte, non guerra”. La proposta di Michael Biasi della galleria MAAB di riprendere in mano quest’opera è stata puntuale e, in modo strano, generativa. Purtroppo, credo che resterà sempre attuale.

Collection: Tate Modern, London
Courtesy Tate Modern and the artist
La tua arte sembra oscillare tra una profonda disillusione e una fiducia ingenua nel cambiamento. Come tieni in equilibrio questi due poli?
Vivo più vicino alla fiducia innocente nel cambiamento che al disincanto profondo. Non sono disilluso, a volte solo scettico. Sarebbe difficile creare arte partendo da una vera e propria dissoluzione interiore.
Ha lavorato anche realizzando scritte e slogan in italiano. Quale è il tuo rapporto con l’Italia?
Ho vissuto a Roma a metà degli anni Ottanta. Poi ho abitato a New York. L’esperienza di vivere in queste due città durante la giovinezza ha avuto su di me un impatto profondo. Le sento entrambe come casa, molto più di Londra, dove sono nato. Non voglio romanticizzare l’Italia come fanno tanti inglesi, che la vedono come una sorta di paradiso, ma ogni volta che lavoro in Italia o a New York cerco di comprendere il presente e creare opere che parlino all’esperienza umana attuale.
Sei un convinto sostenitore dell’educazione artistica. Che ruolo dovrebbe avere oggi l’arte nelle scuole? E cosa rischiamo se la trascuriamo?
L’educazione artistica riguarda l’intelligenza. Le arti sono una sorta di “agar jelly” (gelificante naturale ) intellettuale, specialmente a scuola. Aiutano i bambini a trovare la propria voce. Limitare l’arte nelle scuole significa limitare l’umanità. Arte e creatività dovrebbero permeare tutto ciò che facciamo. Non c’è confine tra arte e scienza: entrambe sono espressioni creative.
Hai mai pensato di abbandonare i testi e lavorare solo con l’immagine? O la parola è ormai parte inscindibile del tuo gesto artistico?
Le parole sono, ovviamente, anche visive oltre che concettuali. Il testo visivo è un meraviglioso punto d’incontro tra pensiero, essere e vedere. In fondo considero le opere con parole e quelle senza parole come la stessa cosa. La cosa da ricordare è che le parole non significano ciò che pensiamo dovrebbero significare: sono semplici indicatori verso le idee.
Cosa è per te l’estetica?
Estetica significa azione mimetica. Qualcuno che lascia una traccia.
Se dovessi scegliere tre parole chiave per definire la tua arte, quali sarebbero?
Piatta, colorata, di legno.
Se le tue opere avessero una colonna sonora, quale canzone sceglieresti?
La colonna sonora della mia arte è Tomorrow Never Knows dei Beatles.
Hai avuto dei mentori? Quali sono i tuoi riferimenti artistici?
I miei mentori sono Val, la mia amica di conversazione in italiano che vedo ogni mercoledì, e Michael, il mio insegnante di pianoforte.
I miei riferimenti artistici, negli ultimi anni, sono stati tutti musicali. Mark E. Smith e la sua band, The Fall, sono stati più importanti per me di qualsiasi altro collega artista. Genio linguistico mescolato a una collaborazione musicale senza pari
C’è un desiderio artistico che non hai ancora realizzato?
Sì, vorrei fare un tour in Italia con la mia band, The Apathy Band, suonando musica che ho scritto per bambini sull’arte ed esporre opere realizzate insieme a mia moglie, Jessica Voorsanger.
Se venissi nel tuo studio, cosa troverei? Quadri, libri, piante, tecnologia, dischi…?
Troveresti molte di queste cose, ma anche un giardino con malvarose e palme, e un bar ben fornito di Cynar e Punt e Mes.
Ti senti più attratto dalla razionalità o dalle emozioni?
Sono una persona guidata dall’istinto e dall’emozione, che sa però che la razionalità è qualcosa che dovrebbe abbracciare.
Cosa pensi dell’intelligenza artificiale applicata all’arte? La tecnicità può superare la creatività?
Sono piuttosto entusiasta dell’IA, ma so che, come Spotify, verrà usata per rendere superflui grafici, giornalisti, animatori… il mondo sta cambiando, e dobbiamo capirlo. Il mio impegno per promuovere l’educazione artistica nasce anche dal desiderio di attivare pienamente l’intelligenza umana, come antidoto all’IA.
Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa per la prima volta? E, soprattutto, cosa hai fatto?
Ho suonato al piano una composizione di Erik Satie, Gnossienne. Non è particolarmente complicata, ma è bellissima… Il linguaggio musicale è una conversazione straordinaria attraverso i secoli, perché pur non essendo privo di contesto, è un linguaggio istruttivo molto diretto. Mi è sembrato che Satie abitasse le mie dita…
L’Artista

Courtesy the artist
Bob and Roberta Smith è in realtà un solo artista. Collaborava con la sorella, ma lei si è riqualificata per diventare specialista in psichiatria di gruppo. Bob e Roberta Smith usa parole dipinte su tele e trasformate in cartelli, scritte su giornali e cantate in canzoni per fare dichiarazioni sull’arte e sulla libera espressione che hanno influenzato generazioni di insegnanti e studenti di materie artistiche ad abbracciare l’idea che le arti sono un diritto umano. All’inizio degli anni ’90 Bob e Roberta Smith ha collaborato con altri artisti musicisti per creare una vivace scena musicale artistica con la sua band The Apathy Band. Nel 2015 Bob e Roberta Smith si è presentato alle elezioni generali nella circoscrizione di Michael Gove per confrontarsi direttamente con lui in merito alla sua promozione dell’Ebacc, che ha ridotto l’insegnamento dell’arte nelle scuole.
Bob e Roberta Smith ha esposto al Moma PS1 a New York, alla Tate Britain a Londra, Modern e Liverpool. Nel 2019 Bob e Roberta Smith ha tenuto importanti retrospettive a La Panacee a Montpellier – a cura di Nicholas Bouriaud – e all’Harris Museum di Preston. Bob è un accademico reale ed è stato insignito dell’OBE nel 2017. Bob ritiene che “tutte le scuole dovrebbero essere scuole d’arte”.