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Generazione Temptation Island al Museo: dal selfie alla contemplazione

Negli ultimi anni i musei hanno cambiato pelle, o forse solo maschera.

Non sono più soltanto i templi silenziosi in cui entrare in punta di piedi per ascoltare le voci della storia, dell’arte e della visione, ma sempre più spesso diventano palcoscenici, scenografie di passaggio, cornici luminose per chi deve testimoniare al mondo la propria presenza.

Rijksmuseum 2025

È l’effetto di quella che potremmo chiamare generazione Temptation Island, cresciuta tra reality, filtri di Instagram e scroll compulsivi di TikTok, una generazione che non visita i luoghi ma li consuma, trasformando qualsiasi spazio in set luccicante e qualsiasi momento in occasione per apparire.

Visitare un museo, per sua intima natura, è un atto che richiede tempo: tempo per fermarsi, tempo per leggere, tempo per guardare, tempo per capire, tempo per immergersi, tempo per emozionarsi.
Il museo è lentezza, è una pratica che chiede durata, voglia e concentrazione, è un esercizio di sguardo lungo, un corpo a corpo con le opere che pretende silenzio e disponibilità interiore. E invece oggi, dentro la logica social, il tempo è diventato il nemico numero uno: ogni immagine deve bruciare in pochi secondi, ogni gesto deve condensarsi in un istante da catturare, postare e dimenticare subito dopo. È un ribaltamento radicale, un cortocircuito esistenziale.

Ma questo fenomeno va oltre la semplice superficialità. Si è innescato un meccanismo più profondo e insidioso: per questo segmento sociale più che generazionale, l’interesse artistico non nasce più da un autentico desiderio di conoscenza o da un’aspirazione estetica, ma si sviluppa esclusivamente come estensione del proprio egocentrismo. L’opera d’arte cessa di essere un fine (un oggetto da comprendere, da cui farsi trasformare) e diventa un mezzo, uno strumento per la costruzione e la conferma della propria immagine sociale.

Non è più “che cosa mi lascia quest’opera?”, ma “come mi fa apparire la foto accanto a quest’opera? Mi farà fare più like? Mi farà sembrare più figo agli occhi dei miei followers?

Così il museo, da luogo di crescita, si trasforma in vetrina; da spazio per l’interiorità diventa sfondo per l’esteriorità. Si entra non per contemplare, ma per performare. Non per crescere, ma per comparire. I selfie o le immagini in generale diventano i veri riti sacri della visita: pose calibrate, angoli studiati, filtri che restituiscono un’immagine del sé più levigata e curata dell’opera stessa. L’attenzione si sposta dall’oggetto osservato al soggetto che si osserva mentre osserva. È la celebrazione del sé come opera d’arte suprema.

I musei, dal canto loro, spesso assecondano questa deriva, e corrono ai ripari. Si improvvisano, ricorrono a curatori influencer, moltiplicano stanze di specchi, installazioni immersive, set “instagrammabili”, luci che trasformano l’esperienza culturale in pura attrazione. In questo patto non scritto, il rischio è che il valore culturale venga misurato in like e condivisioni, svuotando il significato stesso dell’opera e della sua fruizione.

L’approccio non è più di accrescimento culturale ed estetico, ma di estrazione di valore sociale.
L’arte viene “minata” per estrarne status, un contenuto da inserire nel flusso narrativo del proprio profilo per dimostrare di essere colti, trendy, presenti. È un’operazione di marketing del sé che utilizza la cultura come capitale simbolico. Il focus non è sull’evoluzione personale che scaturisce dall’incontro con il bello e il complesso, ma sulla proiezione immediata di un’identità già confezionata: quella dell’individuo culturalmente à la page.

Eppure, per quanto questo fenomeno possa sembrare vuoto e auto-referenziale, non è detto che sia del tutto sterile. Forse per molti giovani questa vetrina è un primo varco, un’occasione di incontro con luoghi che altrimenti resterebbero lontani, ostili, elitari. Forse il selfie davanti a un Caravaggio non cancella del tutto la possibilità che quel Caravaggio, a un certo punto, parli davvero, costringendo anche lo spettatore più distratto a un fugace, autentico confronto.

Ma resta l’impressione di una frattura profonda: la cultura che dovrebbe insegnare la lentezza e la profondità si piega alle regole della velocità e della superficie. Il tempo dell’arte – che è tempo esteso, dilatato, profondissimo – si riduce alla durata di uno scorrere col pollice sullo schermo. Cosa si perde quando l’esperienza estetica si riduce a una performance pubblica? Si perde la possibilità dello smarrimento, del dubbio, della lenta assimilazione. Si perde il dialogo intimo e silenzioso tra l’opera e lo spettatore, un dialogo che può essere scomodo, destabilizzante e, proprio per questo, trasformativo.

La sfida per i musei contemporanei è quindi duplice: riuscire a immaginare spazi in cui l’apparire non soffochi il crescere, in cui il selfie non sostituisca la contemplazione ma possa, in qualche modo, aprirle la strada. Serve il coraggio di pretendere ancora tempo, di non piegarsi del tutto alla tirannia della velocità, di custodire il silenzio come un bene raro e prezioso.

Se c’è qualcosa che l’arte insegna, da sempre, è che lo sguardo vero, quello che cambia chi guarda, quello che lo emoziona, ha bisogno di durare. Ha bisogno di spegnere il telefono per accendere la mente.

Altro che falò di confronto o party in piscina!

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