L’universo pittorico di Lize Bartelli si muove lungo una linea di confine: tra forma e significato, tra identità e astrazione, tra intimità e affermazione pubblica.

Nata a Rio de Janeiro e oggi attiva a Londra, Bartelli esplora la figura femminile attraverso un linguaggio pittorico che rifiuta cliché e gerarchie. I suoi nudi non sono confessioni né provocazioni, ma apparizioni solide, orgogliose, compiute e soprattutto libere. Le donne che abitano le sue tele si spogliano non per essere guardate, ma per esistere secondo regole proprie, fuori da sguardi prescrittivi e dicotomie logore.
Influenzata dalla ricerca cromatica di Joseph Albers e Suzan Frecon, Bartelli adotta il colore non come ornamento, ma come struttura affettiva e concettuale. Nella sua pittura, la teoria del colore diventa pratica di resistenza, armonia e consapevolezza: ogni scelta cromatica è una tensione tra emozione e costruzione, tra forza e delicatezza. Lo sguardo dell’artista si posa sul corpo femminile non per rappresentarlo, ma per liberarlo—da ruoli, da contraddizioni imposte, da un immaginario segnato da secoli di interpretazioni unilaterali.
Il lavoro di Bartelli si inscrive in una riflessione più ampia sull’identità femminile come spazio attivo, mobile, resiliente. La sua pittura celebra una femminilità che non ha paura del piacere né del potere, che rifiuta la serietà come unica chiave di lettura del valore e apre invece a un’estetica in cui forza, intelligenza e glamour possono coesistere. Come lei stessa dichiara:
Da donna latinoamericana, ho compreso quanto il mio contesto culturale sia permeato di sessismo. La pittura è il mio modo di reagire, di oppormi.”
In questa intervista per Hestetika, Bartelli racconta il suo percorso, le sue influenze, la sua visione artistica. Un dialogo che attraversa filosofia, storia dell’arte, musica e intuizione cromatica, per restituire il ritratto di un’artista che dipinge donne libere, audaci, padrone della propria narrazione.

L’Intervista
Il titolo della tua mostra alla Roman Road a Londra è tratto da una canzone degli Smiths e richiama un senso di malinconia e desiderio. Qual è il legame tra musica, memoria e creazione nella tua pratica artistica?
Creo sempre una playlist per ogni serie che dipingo, e la intitolo con lo stesso nome della serie. Questa si chiama Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me, sì, proprio come la canzone degli Smiths. La musica per me non è solo sottofondo, è un ritmo con cui lavoro. I Beach Boys, Aretha Franklin, Sonny and Cher… Non cerco di far combaciare l’umore del dipinto con i testi, ma c’è una stratificazione emotiva che mi aiuta a rimanere connessa al tono dell’opera mentre dipingo. È qualcosa di istintivo.
Le figure femminili che popolano i tuoi lavori sembrano incarnare archetipi, ma al contempo decostruirli. Chi sono questi personaggi e da dove nascono? Emergono da narrazioni interiori, visioni oniriche o esperienze vissute?
Non sono ritratti diretti di persone reali, fatta eccezione per la mia ultima serie Skeleton’s Closet. Sono costruiti attraverso ricerca e immaginazione. Ma ognuna di queste donne porta con sé qualcosa di reale: un’emozione, una domanda, a volte un ricordo. Spesso parto dal corpo: una posa, un gesto. Da lì inizia a formarsi un personaggio. Provengono tutti dallo stesso desiderio di comprendere la femminilità, non come un’idea fissa, ma come qualcosa di stratificato e in continuo mutamento.
Il nudo occupa un ruolo centrale nella tua pittura—esprime libertà, intimità e poesia. Cosa cerchi di comunicare attraverso il corpo nudo?
Mi fa piacere che lo cogli! Il nudo, nel mio lavoro, non riguarda mai la seduzione. È una questione di onestà. È un modo per spogliare le cose, in senso letterale e metaforico. C’è potere nel non nascondersi. Dipingo donne che non si vergognano della propria presenza, ed è qualcosa che per me conta molto. Il corpo diventa simbolo, ma è anche semplicemente un corpo. Entrambe le cose insieme.
Ti sei mai ritratta in uno dei tuoi dipinti?
Sì. All’inizio mi ritraevo spesso, soprattutto per praticità: ero sempre disponibile come modello. Stavo imparando a dipingere e avevo bisogno di qualcuno da osservare, così ho usato me stessa.
In realtà ho dipinto anche un autoritratto per la mia ultima serie, Skeleton Closet, che è stata la mia prima mostra personale. È stato il primo pezzo che ho realizzato per quel ciclo. Quindi sì, l’autoritratto ha fatto parte del mio percorso, soprattutto nelle fasi iniziali.
Anche gli oggetti e i colori hanno un ruolo essenziale nella tua poesia visiva. Come si integrano nella tua pittura?
Il colore è tutto per me. Definisce l’atmosfera emotiva ancora prima che inizi a dipingere, è il modo in cui costruisco il paesaggio interiore di una serie. Vedo il mio lavoro in equilibrio tra Fauvismo e Pop Art. Dal Fauvismo prendo l’idea di usare il colore non per descrivere un’identità, ma per creare uno spazio emotivo. È un approccio intuitivo, espressivo.
Il rosso, ad esempio, ha un peso emotivo enorme—sia personale che storico. L’ho scelto per questa serie perché volevo comunicare urgenza, desiderio, sfida.
Gli oggetti, invece, non sono simboli da decifrare, ma portano con sé significati. Una sigaretta può segnare il tempo. Un telefono suggerisce distanza o connessione. Una mano di carte, un poker di assi, è metafora di vittoria, di caso, di potere. Questi elementi arricchiscono il linguaggio emotivo del quadro.
Hai vissuto in Brasile, Los Angeles e Londra. In che modo il tuo sguardo “ibrido” — tra Sud e Nord globale, tra culture differenti — influenza il modo in cui dipingi e pensi il corpo femminile?
Vivere tra luoghi diversi ha sicuramente plasmato il mio modo di pensare il corpo femminile. In Brasile, gli standard di bellezza sono molto forti, molto codificati. A Los Angeles, invece, ho trovato l’opposto: ci sono stata poco, ma in un momento di forte consapevolezza, molto vocale, molto “woke”. Londra sta nel mezzo. È stratificata, multiculturale, ti dà più spazio per costruire la tua identità. Vivere questi contrasti mi ha fatto capire che la femminilità non è qualcosa di fisso: cambia a seconda del luogo, della cultura, di quanto ti senti libera nella tua pelle.
Un’artista deve prendere posizione e esprimere le proprie idee attraverso l’opera?
Penso che ogni artista abbia il suo modo.
Per me non si tratta tanto di prendere posizione in modo diretto o didascalico, quanto di creare uno spazio per l’emozione, la contraddizione, la riflessione. Il mio lavoro non è fatto per affermare, ma per porre domande, per aprire. Credo che anche la dolcezza possa essere una forma di resistenza.
Se dovessi scegliere tre parole chiave per definire la tua arte, quali sarebbero?
Stratificata, senza scuse, onesta.
Se i tuoi lavori avessero una colonna sonora, quale canzone sceglieresti?
Creo sempre una playlist per ogni serie che dipingo, e ti ho inviato quella di Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me. Spero ti piaccia!
Il tuo stile pittorico rivela influenze della Pop Art e del Fauvismo. Chi sono stati i tuoi maestri? Quali i tuoi riferimenti artistici?
Vedo il mio lavoro come sospeso tra Pop Art e Fauvismo. Dalla Pop prendo l’audacia, la bidimensionalità, l’energia grafica. Dal Fauvismo, l’uso emotivo del colore, che serve non a descrivere ma a evocare. Sono molto attratta anche da artisti come Alice Neel, Suzan Frecon, e Josef Albers—soprattutto per il suo lavoro sulla teoria del colore.
Hai un desiderio artistico che non hai ancora realizzato?
Tantissimi. Ed è proprio questo a motivarmi. Voglio continuare a imparare e sorprendermi… attraverso il colore, le dimensioni, magari anche esplorando nuovi linguaggi un giorno.
Se venissi nel tuo studio, cosa troverei? Quadri, libri, piante, tecnologia, dischi…?
Probabilmente rimarresti sorpresa da quanto è ordinato. Tutti quelli che passano lo notano! Sono una pittrice molto metodica. Mi piace sapere dove si trova tutto, e tengo pulito per pensare con chiarezza. Troveresti molti pennelli, matite colorate, righelli, forbici, colla, pile di immagini—faccio molte ricerche visive. Ci sarebbero anche tele abbandonate a metà, perché non mi convincevano; in questa serie ho rifatto tanto. Ci sono sempre libri in giro. E sebbene non ci siano piante dentro, ho la fortuna di avere un piccolo giardino appena fuori dalla porta dello studio.
Ti senti più vicina alla razionalità o all’emozione?
A entrambe, davvero. Il mio lavoro è profondamente emotivo, ma inizia sempre da una domanda, qualcosa che voglio esprimere o esplorare. Forse è lì che entra in gioco la mia formazione in filosofia. Penso molto prima di dipingere. Ogni serie nasce dal desiderio di dare forma a qualcosa, di sollevare interrogativi—spesso esistenziali, ma mai in modo accademico. Non mi interessa fare dichiarazioni; preferisco provocare pensiero.
Allo stesso tempo, il colore è tutto per me. È così che costruisco il paesaggio emotivo di un dipinto, e da quel punto in poi il lavoro diventa viscerale. Quindi, anche se il punto di partenza è intellettuale, il risultato è sempre guidato dall’emozione.
Cosa pensi dell’intelligenza artificiale nell’arte? La tecnica potrà mai superare la creatività?
L’IA è interessante, ma credo che la creatività resti qualcosa di profondamente umano—fatta di contraddizioni, errori, desideri. La tecnica si può insegnare, perfino programmare. Ma la creatività? Quella è la parte che resiste alla perfezione.
Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa per la prima volta—e cosa?
Qualche anno fa mi sono fatta una promessa: ogni volta che ho una pausa, viaggerò in un posto in cui non sono mai stata. Voglio conoscere il più possibile questo pianeta, non limitarmi a tornare sempre negli stessi luoghi. Così, ogni anno cerco di esplorare una parte nuova del mondo. Per me è sempre un “prima volta”. Sono molto curiosa per natura, mi piace imparare, provare, buttarmi nelle esperienze. Mi tiene viva.
Se non fossi diventata una pittrice, cosa avresti voluto fare?
Qualcosa comunque legato al corpo e alla performance. Forse continuare a recitare? (Ho fatto tanto teatro da bambina fino ai vent’anni). Oppure fiorista! Mi piace l’idea di comporre qualcosa di effimero e vivo.
Cosa ti fa battere più forte il cuore?
Imparare qualcosa che cambia il mio modo di pensare. La natura. E finire un’opera di cui sono davvero fiera.
Se dovessi descriverti in terza persona, come lo faresti?
Generosa, curiosa, aperta e coraggiosa. Almeno, spera che chi le è vicino la veda così!
L’artista

Lize Bartelli (nata a Rio de Janeiro, Brasile; vive e lavora a Londra) è una pittrice la cui pratica affonda le radici nella teoria del colore e in un’esplorazione dell’identità femminile, sviluppatasi a partire dai suoi studi in Filosofia presso la PUC di Rio de Janeiro (2008–2012) e in Performance Art presso il CAL, sempre a Rio de Janeiro. Ha poi approfondito la sua formazione artistica in Europa, completando un Master in Design alla Marangoni di Milano (2012–2013) e studiando Storia dell’Arte presso Sotheby’s a Londra (2016–2017). Sebbene Bartelli sia attiva da molti anni in ambito creativo, ha scelto di dedicarsi professionalmente alla pittura a partire dal 2020.
Rappresentata dal 2023 dalla galleria Simoes de Assis in Brasile, la sua opera ha ottenuto un significativo riconoscimento ed è stata pubblicata su importanti riviste, tra cui Veja São Paulo (a cura di Humberto Addo, 2022), Architectural Digest (a cura di Kathryn Romeyn, 2020), Les Nouveaux Riches Magazine (a cura di Daniel Lichterwald, 2020) e Elle Decor (2020). Tra le sue recenti mostre personali si segnalano Skeleton’s Closet presso Simoes de Assis, San Paolo (2022), curata da Julia Lima, e Mothering al Kupfer Project di Londra (2022), curata da Kiki Mazzucchelli. Ha inoltre partecipato a fiere d’arte di rilievo come SP-Arte, San Paolo (2022), e Zonamaco, Città del Messico (2024).
https://www.instagram.com/lisegrendene/
Le Opere
La mostra
Lize Bartelli
Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me
Dal 5 all’11 Giugno
Roman Road, 12 Saint George Street
London W1S 2FB from