Attraverso una selezione di opere dalla Collezione Morra Greco la mostra “Keep On Movin’” descrive come artisti di generazioni e nazionalità differenti tra gli anni Settanta e Duemila abbiano posto incessanti interrogativi verso il presente facendo emergere il lato in ombra dei sistemi, narrazioni e ideologie che regolano la nostra esperienza di realtà e storia.
Nel 1957, gli scienziati cinesi Lee e Yang, insieme alla scienziata Wu, scoprirono che lo spazio è simmetrico stabilendo che è possibile in un punto qualsiasi del cosmo definire il nord e il sud, la destra e la sinistra. Anche se gli antichi navigatori avevano capito come orientarsi guardando verso il cielo e leggendo il movimento degli astri, la scoperta valsa il premio Nobel rappresenta una conquista epocale: ogni cosa posizionata nello spazio è attribuibile a un punto e una direzione ben precisi, in ogni caso.
Mentre la scoperta di Lee, Yang e Wu stabilisce una volta per tutte l’univocità dello spazio, è impossibile stabilire un punto di vista esauriente per leggere la complessità polifonica della storia. Borges racconta che Pierre Menard tenta di riscrivere parola per parola il Don Chisciotte di Cervantes quasi trecento anni dopo la sua pubblicazione. Lui, come lo spagnolo Cervantes prima di lui, scrivono: “La verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”. E mentre lo leggiamo noi oggi, o lo leggeva Menard nel suo tempo, il senso non è mai uguale e il punto di vista è continuamente moltiplicato: la verità non esiste perché non è possibile stabilire un senso univoco della storia che esaurisca definitivamente il significato delle azioni per i molteplici punti di vista che la abitano. Anche se l’immagine tra il Don Chisciotte di Cervantes, quella di Menard, e noi resta speculare, lo spazio della storia non è simmetrico, il nord e il sud non esistono.
Le opere in mostra interrogano sé stesse come opere d’arte e questionano ora antagonisticamente, ora ironicamente, la società, le istituzioni, il linguaggio, la cultura materiale e il rapporto degli esseri umani con la natura. Attraverso la fotografia, immagine in movimento e pittura, accanto a scultura, installazione, arredamento, e architettura raccontano uno spaccato storico e culturale in cui il mondo è radicalmente cambiato preparandosi ad essere quello di cui facciamo esperienza oggi.
Il lavoro di Július Koller (1939 – 2007, Slovacchia), realizzato nel 1970, indica la frattura storica e culturale tra ovest ed est durante la Guerra Fredda, spingendo lo sguardo al di là della cortina e dimostrando la sussistenza di paradigmi all’interno della storia dell’arte come quello di “arte concettuale”. L’installazione di Sam Durant (1961, Stati Uniti) rovescia i costrutti narrativi della storia Americana attraverso un esercizio di revisionismo, mentre le formazioni architettoniche di Manfred Pernice (1963, Germania), composte da moduli estrapolati dal contesto urbano, commerciale o domestico, analizzano le funzioni sociali di questi elementi nell’esperienza quotidiana avanzando un ragionamento sul senso del display. Similmente, il lavoro di Renato Leotta (1982, Italia) indaga il rapporto tra natura, arte, museo e display.
La ricerca di Giulia Piscitelli (1965, Italia) e Petra Feriancovà (1977, Slovacchia) indaga l’archivio, l’immagine e la cultura materiale ricostruendo i legami, le associazioni, e l’investimento emotivo simbolico assegnato al mondo degli oggetti. Mentre l’opera di Jonathan Monk (1969, Regno Unito) monumentalizza la narrazione autobiografica dell’artista mettendo in crisi il funzionamento dell’opera d’arte.
Appropriazione, riproduzione e citazione sono pratiche continuamente messe in atto. Guardando ai moduli della scultura minimalista, l’opera di Katja Strunz (1970, Germania) porta in luce il riferimento endogeno alla storia dell’arte sviluppando un senso temporale che pone in continuità il senso del trauma derivato dalla consapevolezza del passato con l’esperienza del presente. Così il lavoro di Andreas Slominski (1959, Germania) sposta al di fuori dell’arte l’oggetto artistico fino alla mimesi totale (e funzionale) con la realtà.
Un bersaglio centrale è il sistema dell’arte, la crescente professionalizzazione della figura dell’artista, e gli interessi economici o i codici di condotta che ne convenzionano il linguaggio. Il lavoro di Lorenzo Scotto di Luzio (1972, Italia), o quello di Cezary Bodzianowski (1968, Polonia), indagano in maniera differente questo spazio di azione e transazione tra l’artista e il mondo che lo circonda con gradi diversi di amarezza e ironia. Mentre il confine tra categorie artistiche, esperienza dello spettatore, storytelling, idea e scultura, è messo alla prova in modo differente nelle sculture di Piero Golia (1974, Italia) ed Eva Rothschild (1971, Irlanda).
Il tedesco John Bock (1965, Germania) indaga il lato oscuro della società neoliberale, l’impossibilità di penetrare la realtà e il mondo materiale, operando una revisione delle metodologie didattiche accademiche. Similmente, il lavoro di Keren Cytter (1977, Israele) scardina il linguaggio del cinema moderno mescolando realtà e finzione. Le opere di Cathy Wilkes (1966, Regno Unito) e Kai Althoff (1966, Germania) analizzano invece le politiche di rappresentazione e i significati attribuiti alle immagini, riflettendo sull’esperienza personale e il legame tra individuo e società. L’installazione di Eric Wesley (1973, Stati Uniti) è una chiosa dissacrante dritta al cuore di tutte le ideologie e dei meccanismi pericolosamente autocelebrativi che le caratterizzano.
Accanto a una disamina critica della realtà, gli artisti in mostra condividono linguaggi spesso basati su un approccio fai da te (DIY), una forte tensione concettuale e un’attitudine alla sperimentazione transdisciplinare. I lavori in mostra rifuggono qualsiasi senso di immutabilità o grandiosità tradizionalmente attribuito all’arte. Così facendo, commentano il modernismo, il mito del progresso, le ideologie e le grandi narrazioni che hanno caratterizzato il secolo precedente, invitando piuttosto a immaginare delle storie che coesistano nello spazio e nel tempo prendendo il posto delle grandi narrazioni.
Lo spettatore è invitato a tracciare e percorrere il proprio itinerario all’interno del museo scegliendo in libertà la propria traiettoria di senso. Le opere al primo piano ingaggiano un dialogo diretto con gli spazi fortemente connotati del primo piano nobile di Palazzo Caracciolo di Avellino investigando secondo strategie differenti il ruolo e il rapporto tra arte, museo e natura, cultura materiale, e relativi nessi sociali e politici. Il secondo, il terzo piano e il basement investigano più da vicino il linguaggio, gli slittamenti di senso e le deviazioni narrative all’interno e all’esterno del mondo dell’arte e dell’individuo.
Ponendo un punto interrogativo sulla realtà storico politica del contemporaneo per decostruire l’opacità con cui operano le logiche di potere, Keep On Movin’ è un invito a concepire le istituzioni artistiche come parte di una società e l’opera d’arte come un agente all’interno di un ecosistema più complesso di quello semplicemente estetico attraverso la storia (o meglio, le molte storie) della Collezione Morra Greco, l’attività espositiva di ricerca della Fondazione, e il suo nuovo corso dedicato all’educazione e mediazione dell’arte.
GLI ARTISTI IN MOSTRA
Kai Althoff | John Bock | Cezary Bodzianowski | Keren Cytter | Sam Durant | Petra Feriancova | Piero Golia | Renato Leotta | Jonathan Monk | Julius Koller | Manfred Pernice | Giulia Piscitelli | Eva Rotschild | Lorenzo Scotto di Luzio | Andreas Slominski | Katja Strunz | Eric Wesley |
Cathy Wilkes
INFO
Keep On Movin’
Storie dalla Collezione Morra Greco
29 settembre 2022 – 30 novembre 2022 | Fondazione Morra Greco
Palazzo Caracciolo di Avellino, Napoli