PIERO-GEMELLI

Intervista – PIERO GEMELLI, un architetto fotografo

Incontro con PIERO GEMELLI uno dei “maestri” della fotografia di moda, dallo stile unico.

Per raccontare Piero Gemelli non basterebbe un libro e anche quelli che lui ha pubblicato nel corso degli anni sono “narrano” tutto. Perchè lui è (stato) ed è architetto, fotografo, scultore, direttore artistico e regista.

Romano di nascita, milanese d’adozione, classe 1952, sin da ragazzo appassionato di fotografia (N.d.A: aveva una gloriosa Asahi Pentax Spotmatic che fu anche la mia prima macchina fotografica acquistata), è uno che può vantare una carriera che è come un racconto cinematografico.

Considerato uno dei “maestri” della fotografia di moda e beauty, per decenni infatti ha avuto importanti e prolungate collaborazioni con Vogue, Shiseido, Lancome, Montblanc, Ferrè, Gucci, Tiffany. La sua carriera è iniziata nel 1979, dopo un fortunato incontro con Oliviero Toscani.

Lo incontro a Milano, nella sua casa-studio non lontana dai Navigli, fra mille oggetti, ricordi, libri e (naturalmente) molte sue iconiche fotografie, di moda o di stil life.

Piero Gemelli, come è cambiato lo scenario della fotografia da quando tu hai iniziato?

Per caso tu pretendi una risposta breve? Come tutte le cose, è cambiato da una parte bene e dall’altra male, o forse dovrei dire peggio. Bene perché ha democratizzato la fotografia, nel senso di documentare un evento. Il male è che la tecnica ha consentito a tutti di avere subito un’immagine soddisfacente se non addirittura bella, e per di più facilmente migliorabile. Tutti sono diventati degli autori di un’opera. In parole povere sono diventati tutti fotografi. Documentando anche il nulla.

Il pensiero qui corre a cosa?

Al pornofood, a quelli che fotografano i piatti di cibo o a quelli che fotografano tutto di un avvenimento senza però godere ne quel piatto di cibo che devono mangiare ne quell’avvenimento stesso a cui partecipano. Fotografano tutto e al massimo quel che si ricordano è solo quella fotografia che hanno scattato. Non quel cibo e non quell’avvenimento.

Ci è quindi sfuggita forse la mano della fotografia?

Direi di sì. È diventata democratica ma ha perso tutto o quasi tutto il suo valore. Cercando il lato positivo, seppur a fatica, credo che stia tornando il bisogno di una certa autorialità, di un valore, si tiene conto più della storia di un autore piuttosto che delle sue belle foto.

Tu hai detto più volte di non ritrarre una persona ma quello che quella persona ti suggerisce: che vuol dire?

Io faccio dei ritratti e con i ritratti può risaltare il soggetto, un’attrice, un regista, un artista, per quello che è veramente oppure per quello che io “penso debba essere”. La persona diventa un transfer del pensiero del fotografo. L’identità che io come fotografo riconosco nella persona che ho davanti alla fotocamera è quella che io vedo o intuisco. Cerco in quella persona un qualcosa che possa farla diventare il personaggio di una mia storia. Di un mio film.

Cosa dici di solito a chi stai fotografando?

Che deve “trasmettermi” qualcosa di lui o di lei che non ha dato ad altri fotografi. Perchè altrimenti verranno ancora delle fotografie come tutte le altre già viste e pubblicate.

Nel 1981 sei entrato a lavorare a Vogue, nel 1993 è uscito un volume che raccontava i primi dieci anni del tuo lavoro fotografico. Sinceramente, a quel punto ti sarai sentito arrivato…

Io ho un difetto: non mi sono mai sentito arrivato. Da nessuna parte. Anzi, a dire il vero, ho provato spesso del disagio, che mi è stato utile per “non tirarmela mai troppo”. Il che mi ha procurato anche dei problemi, perché sono stato accusato d’essere troppo solitario e fuori dal giro, e sopra gli altri. In realtà io stavo nel “proprio” e non mi “allargavo”. Ho sempre pensato che se devi avere del merito, questo deve uscire da solo, non perché “te la suoni e te la canti da solo”.

Quando metti mano al tuo archivio, alle tue foto di moda o di still life, cosa vedi?

Della continuità, la mia storia. Non ci sono picchi qua e cadute là. Riconosco sempre uno stile. Il mio. Di questo sono orgoglioso.

C’è qualcosa del tuo lavoro che oggi butteresti?

Direi di no, sono stato fortunato, ho fatto tanta pubblicità ma non ho mai avuto imposizioni. Anzi, talvolta mi sono sentito persino troppo libero di ideare. Ricordo che un giorno arrivarono qui in studio da me tutti i vertici di un famoso brand giapponese di cosmetici. Dissero “Questo è il prodotto da fotografare, lei cosa pensa di fare? Ero un po’ smarrito, e mi sfuggì un “Boh, vediamo”. Loro, senza mezzi termini, dissero che erano qui perché per loro ero il migliore, quindi avevo carta bianca e si aspettavano grandi cose. Finì bene, per fortuna, la campagna fotografica di quel prodotto piacque molto. Ho fotografato poi per loro per un decennio.

Parliamo del periodo d’oro della fotografia?

Esatto. Anni Ottanta. Fu un periodo d’oro non per me ma per tutti. Per la fotografia, per la moda, per riviste come Vogue. C’erano tante idee, tante possibilità, anche economiche, che oggi sono molto più limitate.

A proposito, ricordi il tuo primo servizio fotografico per Vogue?

Anno 1983, fotografai un rossetto di Estee Lauder. Probabilmente piacque così tanto quel servizio che qualche mese dopo ricevetti una telefonata. “Buongiorno, é Estee Lauder New York la vorremmo a NY per scattare per la campagna di un nostro prodotto nuovo”. Puoi immaginare cosa risposi allora nel mio inglese scolastico: “Yes, yes, yes” e niente altro. E son partito.

Domanda difficile: serve la cultura per fare fotografia?

Essenziale. Devi sapere, devi capire. Serve prima, durante e dopo lo scatto. Parlo di fotografia con fotocamere, non con un cellulare.

Tu sei architetto prima ancora che fotografo. Quanto ti è servito esserlo?

Molto, architetto non è una professione ma una forma mentis. È un modo di vedere il mondo. Io lo vedo tridimensionale. Ho una diversa visione dello spazio.

Alla fine Piero Gemelli come definirebbe se stesso in poche parole?

Uno molto pignolo, uno abbastanza insofferente, uno che non accetta il pressapochismo, uno che detesta la mezza verità.

LA GALLERY

ph: Claudio Moschin

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