Intervista – MARGHERITA PALLI: la Regina della scenografia

Margherita Palli ha quarant’anni di carriera, più di cento allestimenti, una lunga collaborazione con il Teatro alla Scala e il Piccolo Teatro, con registi come Branciaroli, Cavani, Ronconi, Martone e molti altri.

E pensare che lei, nata in Svizzera, voleva fare solo la veterinaria…

Margherita Palli, che rapporto ha con l’arte?

Io lavoro nel mondo dell’arte. È quel che faccio ogni giorno, lavorando con la musica, con le parole, con la scenografia. Prendo ispirazione dall’arte, ma non mi considero un’artista, solo una che fa un lavoro. Però attorno a me c’è sempre dell’arte.

Lei ha festeggiato 40 anni di carriera, ed è considerata una delle più grandi scenografe al mondo. Questi 40 anni cosa significano per lei?

Le do una risposta banale. Sono passata da giovane talento, da debuttante a vecchia signora del teatro. Praticamente, come scenografa, non ho avuto l’adolescenza.

C’è un progetto che, più di altri, l’ha entusiasmata in questa sua carriera?

Ce ne sono tanti, forse quei progetti che sembravano difficili alla fine mi hanno più dato soddisfazione. Potrei dire “Ignorabimus” con Luca Ronconi, a Prato. Ne sono uscita a pezzi, perché alla fine sono scappata in Svizzera. Dopo quel lavoro volevo cambiare mestiere, però è stata un’esperienza incredibile, da gennaio a maggio 1986.
Oggi una scenografia la vedo come un divertimento, ma all’epoca quel lavoro mi sembrò un vero massacro.

Lei cita Ronconi: come lo ricorda?

Una persona talentuosa, intelligente, geniale, uno che ti spiazzava sempre e che cercava sempre di mettere alla prova la tua intelligenza, le tue capacità professionali. Primo impegno con lui regista, nella stagione 1983/1984 della Scala: Samstag aus Licht di Stockhausen. A quel tempo lavoravo ancora con Gae Aulenti, a Parigi, facevo la colorista: mi licenziai subito, ed è stato poi un crescendo di collaborazioni con Ronconi per le scenografie, Fedra di Racine al Mestastasio di Prato, seguita da Le due commedie in commedia e La commedia della seduzione.

Quando lei ha iniziato non c’erano né computer, né intelligenze artificiali, ma si faceva tutto a mano… E oggi è meglio o peggio con le nuove tecnologie?

Difficile dirlo. Io sono abbastanza nerd, quindi amo la tecnologia, e credo di essere stata una delle prime ad usare il computer per ideare delle scenografie. Penso che ti dia molte possibilità. Intendiamoci, mi piace moltissimo ancora lavorare a mano, mi diverte disegnare a matita, ma penso che la tecnologia ti consenta di fare cose altrimenti impossibili e in tempi rapidi.

Però so che lei è sempre stata brava a disegnare a mano…

Certo, anche perché quando io mi sono iscritta all’Accademia o sapevi disegnare benino o non potevi farcela. Se non avevi quella capacità era inutile cominciare.

Ma lei voleva fare davvero la scenografa?

No. Volevo fare la veterinaria. Abitavo in Svizzera, a Pura, e c’erano tante mucche. Però appena vedevo del sangue stavo male. Così mio padre mi disse che era inutile coltivare quel sogno. Poi ho pensato di fare la scultrice, e ho lavorato a lungonello studio di un famoso artista, Alik Cavaliere. Ma poi anche lui mi ha fatto capire che avrei fatto poca carriera nel settore. Mi stoppò: “Sei una ragazza, la scultura è già difficile per un uomo. Cambia settore”. E un bel giorno, visto che scenografia non mi dispiaceva, ci sono rimasta. E ho iniziato con le mostre, e solo dopo con il teatro. Quando ci sono arrivata, non mi vedevano bene, dicevano che non avevo fatta la gavetta.

Parliamo di scenografie: quante ne ha firmate?

Non ho tenuto un conteggio esatto, ma penso che tra spettacoli in teatro e opere liriche, in Italia e nel mondo, abbia superato le cento scenografie.

Lei ha scritto anche un curioso dizionario multilingue, che spiega agli addetti ai lavori i termini teatrali: ma come le è venuto in mente di realizzarlo?

Perché ho scoperto girando il mondo che in ogni Paese ci sono parole che si usano, ma non sono mai le stesse. E ci sono mille superstizioni. Prenda per esempio i colori: in Italia mai presentarsi a teatro in viola, legato alla Quaresima, quando i teatranti non potevano lavorare e quindi facevano la fame, ma in Spagna questo vale invece per il giallo (perché è il retro della muleta, l’ultima cosa che vede il toro prima di morire) e in Francia per il verde (legato alla morte di Moliere). E non si fanno mai ovviamente gli auguri a chi va in scena ma si dice ‘merda merda’, che è così anche in francese, perché più merda c’era sotto i portici dei teatri più carrozze erano passate e quindi più pubblico. In Germania si dice Toi Toi: la prima sillaba di Teufel, diavolo, che però porta bene. In Russia quando si inaugura un teatro si porta invece un gatto, porta bene. Un dizionario pieno di scoperte, insomma.

Lei insegna scenografia alla Naba a Milano, la Nuova Accademia delle Belle Arti: cosa dice ai suoi allievi?

Quello che insegno è più che altro un mestiere. Sono molto esigente. Se fai l’università sei un privilegiato e devi lavorare. È come andare in fabbrica. E poi noi non siamo mica artisti.
È un lavoro come un altro il nostro, è come un architetto, hai un committente, devi rispettare i costi. Oggi ci sono parecchie utilizzazioni oltre al teatro: sfilate, convention, vetrine, eventi, concerti. E a tutti spiego che, qualunque sia la destinazione, il nostro compito è lo stesso: tramutare l’input del cliente in un’idea estetica.

Progetti su cui ora sta lavorando?

Ho preparato le scenografie de La battaglia di Legnano, per il Festival di Parma. Debutto a fine settembre. Sto iniziando a preparare le scenografie per l’Eugenio Onegin al Teatro alla Scala, che andrà in scena a febbraio. E sto preparando l’allestimento di una mostra per il Museo del Teatro alla Scala dedicata ad un famoso fotografo di danza.

ph: Claudio Moschin

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