Lorenzo Puglisi, parla di pittura come di un incontro con sé stessi e come una possibilità di conoscere e sottolinea, con i suoi gesti e le sue parole, l’importanza di guardare e vedere il mondo con un’attenzione più ampia.
“Il mio tentativo di raffigurare in pittura va nella direzione di un intenso realismo. Dipingo quello che vedo intorno a me. Ad esempio, anche ora, mentre parlo con te, c’è il tuo viso e il tuo modo di porti, le mani, la tua energia e anche la mia energia. Il resto tutt’intorno non c’è più, è come sparito, oscuro. Per questo la mia pittura è fatta di mani e volti che emergono dal buio. La vita si svolge comunemente con una qualità d’attenzione molto bassa. Caravaggio, per esempio, è stato riscoperto dallo storico dell’arte Roberto Longhi che ha scritto di lui tomi importanti. Per me semplicemente lui era un uomo di Dio, aveva una grande fede ma anche una grande dissolutezza e arrivò ad essere un omicida. Viveva intensamente e dipingeva intensamente, estremizzando il contrasto luce ombra. È morto molto giovane lasciando questa grande rivoluzione visiva. Se guardi i suoi quadri, quelli dei suoi contemporanei appaiono poca cosa, sbiaditi, privi di forza. E cos’altro si può cercare nella vita se non l’intensità dell’esistere? Nelle discipline visive è più evidente perché hai la possibilità di sperimentare ripetutamente e hai un margine d’errore che nella vita non c’è”.
- Parto dalla tua urgenza nel dipingere
“Io non credo di avere urgenze. Nel mio percorso e nella mia vita ho sempre cercato qualcosa che potesse avere un senso e a un certo punto c’è stata questa possibilità della pittura. Da ragazzino sono partito con il disegno, poi ho avuto il coraggio di provare con la pittura. C’era il desiderio di raffigurare una testa, di trovare qualcosa di vivo e vitale manipolando la sostanza oleosa del colore. Volevo delle immagini che avessero una forza”.
- Perché dici coraggio?
“Amavo disegnare, avere la possibilità di raffigurare, possedere un istante che sarebbe altrimenti svanito. Era questo che mi interessava da bambino. facevo ritratti alle persone, ai professori alle scuole medie. La pittura è un’altra cosa. Mi sono messo a dodici anni davanti alla camelia che c’era nel giardino di casa e con un piccolo cartone telato, colori e pennelli, ho provato per l’intero pomeriggio, ma poi ho buttato via tutto perché non sapevo assolutamente di cosa si trattasse. A distanza di quattro o cinque anni, una zia mi chiese di riprodurle un quadro di Magritte che ritraeva la sagoma di un uomo con la bombetta, all’interno della quale c’era una casa che ricordava la nostra, con una sfera sopra un muro di mattoni (“L’uomo e la notte”, ndr) e l’ho realizzato senza difficoltà, ma era una pittura molto semplice ed elementare. Altra cosa è cercare, inventare una pittura. Devi misurarti con l’ignoto, con quello che non conosci… dopo l’invenzione della macchina fotografica la pittura va inventata, soprattutto a livello di tecnica. Quindi quella di oggi bisogna trovarla, è un salto nel buio, un rischio. Il mestiere del pittore è paragonabile a quello dell’equilibrista. Tu cammini su un filo e non puoi mai cadere. Non puoi sbagliare un quadro, ogni volta che inizi devi realizzare qualcosa che abbia una qualità forte, vigorosa. Dalla fune non si può cadere. Non saresti un equilibrista… e non saresti un pittore”.
- Quando guardo i tuoi quadri mi concentro sull’essenzialità, sulla concettualità.
“Qualcuno potrebbe dire che ho trovato una pittura, quando in realtà è una pittura che ha trovato me. Se ti metti davanti a una superficie come una tela e manipoli la sostanza del colore ad olio lasciando che qualche cosa accada, che un’immagine misteriosamente appaia, ecco che qualcosa attraverso te può diventare materia visibile. Certamente però questi pensieri sono successivi all’azione pittorica. Il gesto e l’intenzione hanno in sé questa direzione di essenzialità. Un’essenzialità che è una ricerca anche nella vita e dovrebbe essere così anche con le parole. Se ne dicono troppe. Io mi sono dovuto difendere nell’infanzia da chi ne diceva veramente tante, sarebbe giusto cercare un linguaggio essenziale”.
- Quando l’arte viene consegnata al pubblico diventa un atto generoso?
“Per quello che riguarda l’arte il problema poi è il significato delle parole. L’arte non so cosa sia, provo a fare della pittura. Ci sono stati in passato Goja, Matisse, Picasso, Rembrandt… loro sono artisti, quella è arte. Non basta comprare tele e pennelli per fare arte, farai forse della pittura se sei fortunato. Se poi è arte si vedrà, altrimenti come diceva Bruno Munari ‘Tutti artisti, nessuno artista’. Esporre è un atto anche molto egoistico, c’è anche l’ambizione e la speranza di comunicare attraverso la vitalità, se ve ne è alcuna. Questa è una direzione. Personalmente espongo i miei quadri anche per avere un certo successo e poter continuare a fare questo mestiere. Un pittore ha bisogno del successo per continuare a lavorare. Tutti i grandi pittori della storia hanno avuto successo in vita e sono diventati ricchi, da Renoir a Picasso a Chagall. Sfatiamo il luogo comune della fama postuma, è successo solo a tre, Van Gogh, Modigliani, e il terzo non lo ricordo mai (ride, ndr). Alcuni al contrario, come Guttuso ad esempio, mantenevano vivo l’interesse sui loro quadri grazie alle frequentazioni salottiere e costavano più da vivi che successivamente, ma è un esempio di pittore che fa politica. Altri esempi eclatanti, legati al mercato, potrebbe essere Gerhard Richter, considerato il pittore più importante vivente, anche se per me non ha inventato nulla di nuovo, non vedo novità, però i prezzi da decine di milioni di euro e quindi il mercato lo situano sul piedistallo insieme a Koons o Hockney. Tutta gente a cui stringerei la mano e mi complimenterei, perché hanno fatto valere un quadro moltissimo denaro, è molto difficile riuscirci, ma tra 50 o 100 anni si saprà se il prezzo alto era sinonimo di valore artistico. La questione del mercato è perversa, perché il mercato è fatto dai viventi e quindi anche dal loro interesse economico. La maggior parte della gente non sente e non riconosce il valore artistico senza il nome famoso o il prezzo. Un esempio eclatante è al Louvre di Parigi, dove attraversando un grande corridoio si trova la sala della ‘Monna Lisa’, sempre gremita di turisti che si accalcano davanti al quadro per fotografarlo, rendendo di fatto impossibile vederlo: tutto per il nome e per la fama. Invece sulla sinistra del corridoio c’è l’opera, secondo me, più importante, misteriosa e straordinaria di Leonardo da Vinci, il ‘San Giovanni Battista’. È sempre libera e senza spettatori… per la mia personale gioia quando ci vado”.
- Come nasce un quadro.
“Durante la manipolazione della sostanza pittorica c’è un momento di distacco che appare, una zona di immobilità, come se osservassi quello che accade sulla tela lasciando che le cose vadano da sole e allo stesso tempo dando una direzione. Il tema dell’oscurità e della luce, parte della mia seduzione per la pittura barocca, creano una sorta di alone di mistero, qualcosa di ignoto, di cui lo spettatore sembra aver soggezione… in verità la paura non è mai dell’ignoto. La paura è di lasciare il conosciuto. Ecco, nei miei quadri desidero che vi sia questo momento di smarrimento, di dubbio visivo. Normalmente – parlo per me – c’è un attaccamento alle cose, alle abitudini, ai modi di essere, perfino ai pensieri, soprattutto ai più negativi. C’è bisogno di fermarsi, fermare anche solo per un’istante questa catena infinita… L’ambizione sarebbe di ottenere questo istante di smarrimento davanti all’immagine, uno stop benefico anche se inconscio, come accade davanti alla naturale bellezza della natura. Tutte le discipline orientali e le religioni insegnano che dovremo lasciare tutto al momento della morte, argomento impopolare che ha invece la più grande importanza. Si è costretti a lasciare tutto, ogni cosa materiale. È sicuramente un grande shock pensarci seriamente, ma è un passaggio naturale che il nostro mondo occidentale ha reso traumatico e doloroso. È un passaggio, appunto verso l’ignoto, come lo è stato la nascita. Se dovremo comunque tutti sicuramente lasciare andare tutto ciò che è materiale, allora perché non allenarsi prima, finché se ne ha ancora il tempo?”.
- Quando senti che un tuo quadro è finito?
“A un certo punto durante la manipolazione della pittura lo chiudo, nel senso che per me ha raggiunto una sua struttura sufficiente. Se però rimane in studio a lungo, è possibile che lo modificherò ancora, è accaduto spesso. Può rimanere lì anche qualche anno. Io custodisco imballati alcuni quadri di anche quindici anni fa. Ogni tanto li vado a riguardare ma poi li nascondo di nuovo. La pittura per me è un po’ come l’alpinismo. Si raggiunge un picco, un livello più alto, un campo base e lo si deve tenere come una memoria, come uno standard nuovo di qualità. Un giorno quel picco sarà il nuovo campo base, non più l’eccezione e da lì si riparte per un nuovo picco. Ogni quadro deve essere migliore di quello precedente. Se c’è un minimo di oggettività, dev’essere così. È ancora il concetto dell’equilibrista. Se c’è un quadro che non va bene non puoi chiuderlo. Se un quadro non è bello ci dipingi sopra”.
- Sto cercando di pensare a come può essere brutto o bello un quadro.
“È un problema. Ho scoperto che quadri che per me non andavano bene invece a qualcuno interessavano moltissimo. Un quadro è chiuso quando esce dallo studio – forse (ride, ndr) – Picasso diceva che un quadro non si può mai finire”.
L’ARTISTA
Lorenzo Puglisi (Biella, 1971) è autore di una ricerca pittorica che si caratterizza per l’utilizzo diffuso del nero che crea uno sfondo di buio assoluto, dal quale si sprigionano fiotti di luce capaci di definire i volumi, i volti, le parti del corpo, come presenze catturate in un’espressione o in un gesto, frutto di un percorso verso l’essenzialità della rappresentazione e denso di rimandi alla storia della pittura. Negli ultimi anni la sua ricerca artistica si è focalizzata su grandi tele riferite a capolavori del passato e filtrate dalla sua iconografia. Nel 2019 una monografia sul suo lavoro è stata pubblicata da Hatje Cantz (Berlino), con un saggio di Mark Gisbourne. Il libro presenta i lavori più emblematici del percorso dell’artista con una sezione dedicata a Il Grande Sacrificio, la mostra tenutasi in Santa Maria delle Grazie a Milano per commemorare il 500esimo anniversario della morte di Leonardo da Vinci.
Il suo lavoro è stato esposto in numerose mostre collettive e personali in spazi pubblici e privati, tra I quali il CAC La Traverse di Parigi, Il Pio Monte della Misericordia di Napoli, The Historical Museum a Brema, la Sagrestia del Bramante a Milano, la Cripta della Chiesa di King’s Cross St. Pancras a Londra. Lo scorso setembre ha inaugurato una mostra alla Basilica di Santo Spirito a Firenze con uno dei suoi dipinti, Crocifissione, davanti alla scultura di Michelangelo di Cristo in croce. I progetti futuri includono una mostra al Latvian national Museum of Art di Riga in Lettonia, in collaborazione con le Gallerie degli Uffizi di Firenze.