Lo aspetta un’estate di accelerata scrittura per il nuovo libro che sarà edito da Feltrinelli, dopo un intenso periodo di lavoro energivoro.
Divulgatore e critico d’arte sui social network e in tv, Jacopo Veneziani ha da poco debuttato su Rai 3 con un programma tutto suo, Vita da artista, che ci accompagna in questo inizio di estate calda mentre aspettiamo la prossima stagione. In un tempo storico dove la velocità dell’informazione rischia di schiacciare la memoria, Jacopo con le sue note di colore, la sua competenza e la sua gentilezza rende l’arte accessibile a tutti intrecciando bellezza, storia e attualità. Dottore in Storia dell’Arte e divulgatore con un grande seguito sui social, ci spiega l’arte non solo come eredità del passato, ma anche come specchio del presente.
Lo abbiamo incontrato per capire come nascono i suoi racconti visivi, cosa significhi per lui fare divulgazione oggi e perché, in fondo, l’arte continua a parlarci di noi.
L’INTERVISTA
Qual è il tuo segreto per raccontare l’arte?
Non so se c’è un segreto vero, diciamo che io cerco sempre di mettere da parte quest’istinto di voler fare bella figura. Se vuoi essere un buon divulgatore non devi pensare a valorizzare te stesso, ma a rimanere focalizzato su ciò che si sta raccontando, che a volte non è sempre nella direzione della valorizzazione di chi racconta. Forse, quindi, il segreto è non parlare per fare bella figura e per dimostrare una serie di conoscenze e competenze, ma mantenere sempre il focus sul contenuto e non su noi stessi contenitori”.
Diventare semplici strumenti di comunicazione.
Sembra una cosa molto banale, ma tanti non riescono a staccarsi da questo riflesso e si lanciano su cose comprensibili a pochi. In fase di scrittura mi chiedo sempre se ci tengo a far sapere che una cosa la so o se lo sta dicendo perché ha un senso nel racconto e può aiutare effettivamente a capire meglio quella figura. E quando prendo coscienza del fatto che lo sto dicendo perché voglio far sapere che lo so, faccio ‘seleziona’ e ‘cancella’ il testo. Il divulgatore deve sempre fare un passo indietro rispetto al contenuto che divulga, altrimenti diventa un personaggio che con il tempo può creare delle interferenze rispetto al contenuto. Per questo sono sempre fautore del modello di divulgatore forgiato da Alberto Angela, perché lui nonostante il suo essere iper nazional popolare, è narratore dentro. Alberto Angela appare nelle case solo quando deve fare Alberto Angela, quando deve parlare di Pompei o di Van Gogh e non si mostra quando va in vacanza. Secondo me mantenere questa sorta di neutralità ti permette sempre di essere percepito come colui che vuole dire qualcosa, non come colui che vuole essere visto e notato per ciò che è”.
Quando ti sei appassionato d’arte e quando hai capito che di arte non avresti più smesso di parlare?
Sai quando si dice il fuoco della passione? Io credo di avere avuto tante piccole fiammelle che si sono accese in momenti diversi, ma sempre nella stessa direzione fino a divampare completamente. In realtà ero interessato al mondo della divulgazione senza riuscire a verbalizzarlo come lo sto facendo adesso, già alle scuole elementare. Chiunque raccontasse qualcosa in televisione, da Alberto Angela al gloriosissimo Osvaldo Bevilacqua in ‘Sereno Variabile’, mi affascinava. Non esistevano ancora gli influencer, ma nella mia testa di bambino era straordinario che ci fossero persone il cui lavoro era andare in giro a visitare luoghi. Ricordo di una volta che chiesi espressamente a mia madre se queste persone si pagavano da soli i viaggi o se gli venivano pagati”.
Adesso la risposta ce l’hai?
Adesso sì. Infatti quando mi ha risposto che venivano pagati perché stavano lavorando, le ho proprio detto che avrei fare quel lavoro lì nella vita. Poi questa cosa delle elementari, quell’Alberto Angela tra le Piramidi e le rovine dei Maya, è rimasta lì in parte per anni. Alle superiori, grazie anche a una bravissima professoressa, mi sono appassionato di storia dell’arte. Se prima mi piaceva solo l’idea, poi mi son detto che forse quel vecchio sogno nel cassetto di raccontare a qualcuno qualcosa… quel qualcosa poteva essere l’arte. Sono andato a studiare all’Università in Francia e mentre stavo a Parigi in biblioteca, ho pensato che avrei dovuto aprire un account social per parlare proprio lì delle cose interessanti che leggevo ogni giorno. Se poi vogliamo aprire una parentesi psicanalitica rispetto a quando ho capito che volevo fare questo lavoro, ti rispondo che forse l’ho pensato anche come antidoto alla solitudine. Trascorrevo dalle dodici alle tredici ore in biblioteca e mi sembrava un po’ un controsenso assimilare cose e scoprire curiosità, aneddoti e dettagli per poi tenerli sempre per me. Dicevo: è mai possibile che non ci sia un modo per condividere questa cosa? A un certo punto ho avuto il desiderio di uscire dalla bolla accademica universitaria e cercare di raccontare quelle cose a qualcun altro”.
Questo tuo modo di raccontare è il tuo modo di essere?
Sì, ci provo a essere coerente con la mia interiorità, anche se – in verità – non racconto niente quando sono in giro con gli amici. Magari ci rimane male qualcuno se andiamo a vedere una mostra, ma non sono solito invitare gli amici per fare da guida. Sono uno che preferisce – dove possibile – osservare e ascoltare”.
Perché dal percorso lavorativo in Francia sei tornato in Italia?
Per diverse ragioni, ma in realtà dopo quasi cinque anni a bazzicare e raccontare sui social network, mi sono arrivate delle proposte. Prima l’editore Rizzoli che mi ha chiesto di scrivere un libro (‘#divulgo. Le storie della storia dell’arte’, ndr), perché sui social network apprezzava il mio approccio sintetico. Da quel libro, durante la promozione, dopo cinque anni di sola scrittura sui social dove non mi ero mai esposto e la gente nemmeno sapeva che faccia avessi, ho iniziato a fare dei video. Poco dopo, nell’estate del 2020, un’autrice del programma del giornalista Massimo Gramellini, mi ha chiesto di fare una rubrica d’arte fissa. Il primo anno stavo a Parigi in collegamento e dopo la prima stagione, senza avere un piano preciso, mi sono trasferito in Italia nella speranza di essere confermato in quell’avventura televisiva dentro lo studio, in presenza. Ho usato un approccio da marinaio che sposta la vela quando sente che il vento tira in un’altra direzione. Il programma molto seguito, ha generato anche proposte diverse, da musei a conferenze a collaborazioni altre. In Francia avevo solo l’Università e il dottorato si era concluso. Anche se fa chic dire ‘vivo a Parigi’, ho pensato di tornare in patria perché lì sentivo un terreno fertile”.
A inizio giugno hai esordito con un programma televisivo tutto tuo, ‘Vita da artista’, con un linguaggio che porta la televisione sugli altri device e tanta musica moderna nelle case di personaggi storici monumentali.
Era un nostro desiderio quello della musica moderna, l’autrice Ilenia Ferrari è molto sul pezzo in quanto a musica e la musica ringiovanisce un po’ il racconto.
Se uno parla di ‘800, l’immagine e il suono va subito a Claude Debussy. Anche dal punto di vista sonoro a volte si può essere un po’ prevedibili quando si confeziona un contenuto di questo tipo e noi invece abbiamo voluto creare l’effetto sorpresa. Ci siamo detti: se parliamo di Leopardi ed entrando nella sua casa sbuca Billie Eilish? Magari si crea un po’ di effetto spaesamento ‘un cosa sta succedendo?’ che genera curiosità, interesse e si ascolta un po’ di più”.
Qual è la casa che ti ha incuriosito di più e qual è l’opera che non ti saresti mai aspettato di trovare nelle case che hai visitato?
Una delle cose che mi ha colpito particolarmente è casa Pascoli. Pascoli mi è sempre stato un po’ antipatico. Mi sembrava un poeta tristanzuolo da antologia delle superiori. Pensavo: eh, però ripigliati. Andando a casa sua a Barga ho scoperto un tenerone. A parte la sua passione per la botanica, per l’orto, ho trovato molto tenera questa stufa di casa Pascoli che non è mai stata accesa dal poeta perché scoprì nella canna fumaria un nido di api. E lui, un po’ animalista ante litteram, non ha mai voluto affumicare le api accendendo la stufa. Nelle sue memorie, la sorella scrive che in cinquant’anni finché c’era il Pascoli non ha mai potuto riscaldare la casa se non con un braciere in cucina. Oggi ci sono ancora delle api discendenti da quelle salvate dalla colonia del Pascoli in quella canna fumaria. Mi fa sorridere l’idea che a volte pensiamo a queste case come a dei mausolei cimiteriali, invece c’è ancora vita e in questo caso non è didascalico”.
Cosa racconti nel programma?
Il mood che volevo restituire era quello della visita della domenica pomeriggio insieme a chi sta vedendo il programma. Volevo dare un taglio amichevole. La regia ha dei movimenti e una gestione dello spazio all’interno delle case distante dal modo di raccontare che ha a volte il divulgatore entrando in posti di importanza storica, dove si mette nella modalità dell’adesso ti spiego io. Cerco sempre dove è possibile di non apparire come quello che è già stato lì e che spiega le cose importanti. Mi piace l’approccio dove scopriamo insieme. È una gita della domenica in amicizia e non una visita guidata”.
A proposito di regia, ho chiesto al tuo regista Alessandro Nidi, di farti una domanda. Mi piaceva avere uno sguardo privilegiato, di chi ti ha conosciuto dietro la telecamera, ma per dirigerti. Se potessi scegliere di vivere un’opera che sta prendendo forma, in quale stanza vorresti stare mentre l’artista sta creando?
Qui la risposta è facile, anzi difficile perché devo scegliere solo una cosa. Mi sarebbe piaciuto essere nello studio di Giorgio De Chirico in piazza di Spagna mentre faceva le sue tele metafisiche di cui ha sempre detto poco, perché De Chirico era una persona molto riservata. Quando gli chiedevano cosa volesse dire nelle sue opere, ci girava sempre intorno e non diceva mai la vera ragione che lo aveva motivato. Per cui stare nello studio di De Chirico a guardare la metafisica prendere forma direi che sarebbe stata una experience straordinaria. Oppure mi sarebbe piaciuto stare a casa Buonarroti a Firenze ad assistere all’atto di creazione delle prime sculture che sono ancora conservate e che appartengono al diciassettenne, quasi diciottenne, Michelangelo. Non sarebbe stato per niente male”.
Che case avete scelto?
Abbiamo scelto case dove il proprietario sembra essere uscito un attimo a prendere il pane e che quindi danno questa sensazione di intimità che rende più umani questi grandi personaggi. Ci sono i loro oggetti, la loro vita. Mentre tocco lo scalpello di Canova, alla fine dico… è solo uno scalpello. C’è la poltrona di Manzoni, i suoi occhiali. Sono oggetti del nostro mondo, come lo erano queste figure che ogni tanto vengono raccontate come delle divinità. Invece secondo me riportarle alla sfera umana le rende anche più vicine a chi ascolta. Non parliamo di una figura mitologica, ma di una persona come noi, con le sue fobie e le sue fragilità e approfondiamo la sua storia. La casa è il luogo dove siamo noi stessi, dove siamo noi veramente. Andare nel luogo dove questi grandi personaggi della nostra storia sono stati autentici, aiuta a comprenderli meglio. Forse alcuni di loro non sarebbero contenti di sapere che siamo entrati a casa loro. Penso ad Alberto Sordi che non faceva salire al piano di sopra gli amici più intimi. Chissà cosa avrebbe detto oggi se avesse saputo che la sua casa va in televisione ed è visitata da migliaia di persone durante l’anno? Forse avrebbe avuto qualcosa da ridire”.
Hai un talento nel raccontare cose complicate rendendole facili e fruibili a tutti. Ti piacerebbe accendere la fiammella, quella stessa che ha acceso in te Alberto Angela quando eri un bambino, a un pubblico giovane?
Uno dei miei crucci è quello di capire come parlare d’arte a persone più giovani. Il pubblico che mi segue sui social è complementare, è un pubblico televisivo e un pubblico di giovani adulti. Forse c’è un modo per raggiungere il pubblico più giovane o forse no. Tra le cose che mi hanno incuriosito in questi anni, c’è l’aver contribuito a un manuale di Giunti Editore che entrerà dal prossimo anno scolastico a disposizione degli studenti. Un modo e un’incursione per entrare nel mondo della scuola”.
L’ARTISTA

Jacopo Veneziani (classe 1994), storico dell’arte e divulgatore, ha vissuto otto anni a Parigi, dove ha ottenuto un dottorato in Storia dell’Arte all’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne. Nel 2020 ha pubblicato ‘#Divulgo. Le storie della storia dell’arte’ (Rizzoli), nel 2021 ‘Simmetrie’ Osservare l’arte di ieri con lo sguardo di oggi’ (Rizzoli) e nel 2023 ‘La Grande Parigi. 1900-1920. Il periodo d’oro dell’arte moderna’ (Feltrinelli). Ha curato per tre anni una rubrica settimanale dedicata alla storia dell’arte all’interno del programma “Le parole della settimana” su Rai3 ed è ospite fisso del programma “In altre parole” su La 7 condotto da Massimo Gramellini. Conduce il programma “Vita da Artista” su Rai 3. Insegna ‘Comunicare l’arte’ all’Università IULM di Milano ed è presidente della Galleria Ricci Oddi, la Galleria d’arte moderna della città di Piacenza.