Intervista – FABIO FASOLINI e il dietro le quinte delle mostre fotografiche

Chi c’è dietro una grande esposizione fotografica o una mostra d’arte? Chi tiene le fila, chi organizza, chi prende gli accordi, chi sceglie i musei, chi decide quando e dove esporre e con quali immagini?

Me lo sono chiesto osservando al Palazzo delle Esposizioni a Roma, A Roma Codex, la grande mostra del fotografo Albert Watson, uno dei nomi di assoluto richiamo. Mostra dietro alla quale c’è Fabio Fasolini, Studio Fp International, produttore da decenni di grande eventi artistici, amico dei più famosi fotografi di moda (e non solo).  

ALBERT WATSON E FABIO FASOLINI ph. Claudio Moschin

Fabio, tu hai vissuto la fotografia negli anni d’oro, da Irving Penn a Patrick Demarchelier, passando per i grandi nomi come Scavullo, Peter Beard, e così via. Ma qual è oggi la sfida più radicale nel rappresentare l’immagine di un’epoca?

Ogni fotografo era completamente diverso. Irving Penn era totalmente diverso da Scavullo. E Scavullo, a sua volta, aveva un’immagine completamente diversa da Peter Beard, o da Patrick Demarchelier. La sfida è che tutti loro avevano l’abilità di fare una fotografia con un one shot, one click. Questa era la loro bravura. Come dice Albert Watson: “Sono nato con la macchina fotografica in mano.” Tutti loro erano così. Non avevano tecnologia, c’era ancora la pellicola, il contact sheet, e tutto doveva essere fatto velocemente. Non si poteva ritoccare. I giornali volevano i contact sheet il giorno dopo, magari eravamo ai Caraibi, e bisognava trovare il modo di farli avere. Non c’era tempo come oggi. Perciò, venivano automaticamente eliminati tutti quei fotografi che non avevano idee. Non c’era spazio per sbagliare: si facevano viaggi interi per scattare. Non potevi sbagliare fotografo, perché sbagliavi un intero servizio, un’intera produzione per una rivista come Harper’s Bazaar, Vogue, etc. Tutto doveva essere fatto al massimo livello. Una selezione naturale nel settore della fotografia.

Da New York a Los Angeles, da Londra a Parigi e Milano. Quanto conta il radicamento geografico nella pratica, nello storytelling visivo, nel libro o catalogo che viene editato? Quanto influiscono i contesti culturali?

Con i vari Paesi, il fondamentale era che tutti ti chiedevano il massimo dell’immagine. Per esempio, con l’Uzbekistan volevano che nel libro emergesse l’arte millenaria del paese, perché non era conosciuto per niente. Poi saltavi al Marocco, dove il principe ereditario – che ancora non era re – ha dato carta bianca: “Fate la produzione come volete, ma deve venir fuori un’immagine del mio regno che duri nel tempo.” Non qualcosa che muore, ma qualcosa che rimane per sempre. Tuttora, il ritratto ufficiale del re del Marocco è di Albert Watson, ed è dappertutto. Da quando entri in aeroporto, trovi tutti i suoi ritratti ufficiali. È una grande soddisfazione, per Albert Watson in primis, e per noi che lo rappresentiamo.

Qualcosa sui grandi fotografi con cui hai lavorato: stili, ossessioni, approcci?

Albert Watson, per me, è stato il migliore in assoluto nella moda. Patrick Demarchelier era moda, punto. Viveva la moda, vedeva la moda, sceglieva gli abiti, il trucco, i capelli. Faceva tutto lui. Non è solo specializzazione, è passione: lui amava profondamente la moda. Ha lavorato negli anni d’oro per Vogue, Bazaar, tutti i migliori giornali di moda. Scavullo invece aveva un modo di fotografare completamente diverso. Si immergeva nel suo studio, un buco nel pavimento: fotografava dal basso verso l’alto, con luci strane. Sempre da quel buco. Patrick era innamorato della casa di Andy Warhol. Sì, esatto. Era innamorato del cubo nero che Warhol aveva costruito a Montauk, vicino alla casa di Peter Beard. Era un cubo chiuso su tre lati, nero, ma con il sole dei Caraibi: creava riflessi pazzeschi, uno studio all’aperto. Una luce sempre diversa, dalla mattina alla sera. Una cosa stranissima, totalmente diversa dai white cube di oggi. Peter Beard ha lavorato tutta la vita in Africa, di cui era profondamente innamorato. Rappresentava l’Africa disegnandola, dipingendola, e sempre con piccole camere, perché all’epoca i telefonini non esistevano. Aveva un ranch in Africa, dove sono state fatte tantissime produzioni. Lì c’era l’anima. Si andava anche in Centrafrica, a trovare tribù strane, con aerei personali, tutto. Innumerevoli storie: potremmo stare qui fino a domani.

Oggi i musei più importanti vi chiedono di esporre i vostri maestri. Come si costruisce una mostra che rimanga nella memoria collettiva?

La priorità è avere davanti persone che capiscono di fotografia. Tecnici, persone che sanno di cosa si parla. Se invece hai di fronte una persona competente, che conosce il valore dell’artista e sa costruire la mostra, allora sì. È fondamentale. È il fondamento. Poi certo, conta anche il curatore, la curatrice, ma tutti devono entrare nel mood dell’artista. Altrimenti rischi di fare una cagata mai vista. Ti iniziano a dire: “Questa foto no. Quella foto no.” E tu chiedi: “Perché no?” “Perché a me non piace.” Ma chi sei tu? Il museo deve dare carta bianca all’artista. È il direttore che deve capire. Deve essere lungimirante, comprendere cosa può dare quel fotografo, come può impostare una mostra. Se porti una mostra già esistente, è un conto. Ma se la crei da zero – come abbiamo fatto a Roma o in Uzbekistan – è tutta un’altra cosa. Quelle sono mostre che vanno costruite apposta. A Roma l’abbiamo fatta con il presidente del museo sempre a contatto, ogni giorno. Curatrice e presidente partecipavano a ogni sessione di fotografia. Dovevano esserci in ogni step.

Parliamo dei nuovi progetti. Il tuo studio FFP International ha un archivio straordinario, enorme, che percorre trent’anni di cultura e stile. C’è l’idea di aprirlo alle nuove generazioni?

Ce l’hanno già chiesto. Ti dico la verità: la Getty Magic ci ha chiesto di comprarlo tutto. Ma non è semplice. Abbiamo due container a Genova, una cantina qui, la casa, un’altra casa… c’è dentro tutto, da Irving Penn in poi. Come fai?

Quale potrebbe essere allora l’eredità dello studio?

Un continuum… come dire… chiudere il teatro, la tenda rossa, riunirsi. Un’attivazione, sì, perché l’archivio è spaventoso. Ma no, non c’è l’intento di creare una piattaforma didattica, esperienziale, con istituzioni. C’è dentro la storia della fotografia personale, fatta anche di shooting privati. Migliaia di foto. La nostra assistente, Elisabetta, che segue tutto l’archivio, ci ha detto: “Guardate che si stanno rovinando queste fotografie. Stanno perdendo la loro capacità, hanno 40 anni.” L’umidità, i container a Genova… è anche un discorso di conservazione, tutela. Sono manufatti a tutti gli effetti.

Progetti futuri dello Studio FP International?

In questo momento l’attenzione è concentrata su tre progetti legati a Albert Watson. A dire il vero, ci sarebbe l’intenzione di “congelarlo” momentaneamente, per evitare una over-esposizione: Watson è già molto visibile, e per bilanciare la programmazione sarebbe utile dare spazio anche ad altri fotografi, altrimenti il rischio è che diventi eccessivo. La mostra alla Permanente è confermata. Intanto, una giornalista di Seul ha proposto di portare Watson anche lì. Lavora per Billboard, la storica rivista musicale, che recentemente ha ampliato il proprio raggio d’azione includendo anche la fotografia e contenuti culturali trasversali. Un’altra occasione è legata al Principe di Savoia, in concomitanza con i Giochi Olimpici invernali. Si tratterebbe di un Gala previsto per fine gennaio. Infine, dopo questi appuntamenti, Watson dovrebbe partire per Washington, dove si ripeterà “Roma Codex” che da Roma viaggia al Kennedy Center. È tutto confermato al 100%.

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