Primario dell’Istituto Clinico Città Studi di Milano, Edoardo Garassino è una delle voci più autorevoli nel campo della chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica.
Il suo lavoro si muove tra funzione e bellezza, con particolare attenzione alla chirurgia post-bariatrica, disciplina complessa e delicata che, più di altre, interseca medicina, psicologia e, non da ultimo, arte. Lo abbiamo incontrato per riflettere insieme sul valore estetico della chirurgia, sulla responsabilità di chi opera nel corpo degli altri e su cosa significhi oggi “piacersi”.
Iniziamo da qui: qual è il cuore della tua attività?
Sono specialista in chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica e primario all’Istituto Clinico Città Studi, una struttura universitaria convenzionata dove ci occupiamo, tra le varie cose, di chirurgia post-bariatrica. È una branca che mi sta particolarmente a cuore perché si rivolge a persone che hanno vissuto gravi obesità e, dopo un intervento bariatrico, si trovano a dover ricostruire non solo il proprio corpo, ma anche una nuova immagine di sé. In questo senso, parliamo di una vera e propria restituzione dell’integrità estetico-funzionale.
Che tipo di percorso affrontano queste persone?
È un percorso lungo, che parte da una sofferenza spesso profonda, legata a esperienze personali, affettive, economiche. Chi arriva a pesare anche oltre 200 chili, lo fa perché ha perso qualcosa di sé. Dopo l’intervento bariatrico — che esegue il chirurgo generale, non noi — inizia una lenta rinascita. Ma è solo con la chirurgia plastica post-bariatrica che quel corpo può ritrovare dignità. Interveniamo per rimuovere l’eccesso cutaneo, per restituire armonia, funzionalità e possibilità di movimento. È un lavoro che richiede un’équipe multidisciplinare: psicologi, dietologi, psichiatri e naturalmente noi chirurghi plastici. Nessuno si salva da solo.
Qual è il profilo dei tuoi pazienti?
Estremamente variegato. Si va dai ragazzi di 16-18 anni fino a pazienti di 70 anni. Le problematiche sono molte: difficoltà motorie, problemi articolari, infezioni cutanee dovute alle pieghe, ma anche un senso di alienazione dal proprio corpo. Alcuni arrivano a non riuscire a vestirsi. In certi casi parliamo di pance che scendono sotto le ginocchia: un peso che grava su femori, tibie, articolazioni. Intervenire significa migliorare non solo l’aspetto estetico, ma anche la salute fisica, l’autonomia e le relazioni sociali.
Per te l’estetica è un valore?
L’estetica è un caposaldo dell’identità. Chi non se ne cura, in fondo non si vuole bene. Ma attenzione: anche chi eccede, chi rincorre un ideale irraggiungibile, finisce per farsi del male. Serve equilibrio, come in tutto. L’estetica dovrebbe essere un atto d’amore verso se stessi, non una gabbia. Il nostro compito, come chirurghi, è anche quello di dire “no”, di fermare la corsa verso la perfezione paranoica. Quando un difetto è solo il sintomo di un disagio più profondo, non è la sala operatoria il luogo giusto: è lo studio dello psicologo.
In questo senso, la chirurgia estetica è anche una forma d’arte?
Senza dubbio. L’arte è ricerca della bellezza, e la bellezza, per definizione, non ha età. Prendi Lucio Fontana: non ha mai scolpito un volto o un corpo, eppure nei suoi tagli c’è la volontà di andare oltre la superficie. La chirurgia plastica dovrebbe fare lo stesso: non imitare modelli, ma cercare un senso, una verità. Non siamo scultori, né dobbiamo diventare i Picasso della sala operatoria: non dobbiamo inventare nuovi canoni, ma restituire armonia.
L’arte contemporanea ti influenza nel tuo lavoro?
Non direi “influenza”, direi “connessione”. L’arte e la chirurgia estetica sono correlate. Entrambe intervengono sulla forma, sul significato, sul corpo. Mi capita spesso di visitare mostre, amo Firenze e l’arte contemporanea americana. Mi interessa la capacità dell’arte di proporre visioni nuove senza cadere nella ripetizione. Anche in sala operatoria dobbiamo sapere innovare, ma senza perdere l’equilibrio. Perché non si tratta di creare qualcosa di originale a ogni costo, ma di costruire qualcosa che funzioni.
Che rapporto hai con la tecnologia e, in particolare, con l’intelligenza artificiale?
L’intelligenza artificiale è utile finché resta uno strumento. Ma non può sostituire la nostra fantasia, la nostra memoria, la nostra essenza. Un esempio semplice: una volta ricordavamo centinaia di numeri di telefono. Oggi ne ricordiamo due o tre, perché abbiamo delegato tutto. Questo è un rischio. Anche nel nostro lavoro la tecnologia è fondamentale, ma non deve mai sovrastarci. L’estetica non può essere generata da un algoritmo.
E con i social media?
Mi sono tolto. I social danno visibilità, ma poi diventano un boomerang. Creano aspettative irreali, omologazione, dipendenza. Chi viene da me con la richiesta di un intervento dovrebbe fidarsi di ciò che propongo, non venire con la didascalia trovata su Instagram. Non vai dal meccanico chiedendogli quale vite usare: gli chiedi di aggiustarti l’auto. Allo stesso modo, non è il paziente a decidere la tecnica chirurgica. È il chirurgo a dover sapere cosa è meglio.
Hai un esempio che ti ha colpito particolarmente?
Ce ne sono tanti. Ma ciò che mi resta nel cuore è la paziente che entra piangendo e ne esce col sorriso. Quando ti guarda negli occhi e ritrova sé stessa. Questo vale più di qualsiasi parcella. È lì che capisci che non hai semplicemente cambiato un corpo: hai restituito una persona a se stessa.
Qual è la tua sfida futura?
Continuare così. Non perdere lo spirito, non arrendermi al tempo. Vedo colleghi che, col passare degli anni, si spengono, smettono di crescere, si chiudono in ciò che già sanno. Io voglio ancora imparare. Voglio lavorare per un domani, non solo per l’oggi. Voglio che il mio corpo invecchi, ma che il mio pensiero resti vivo, creativo, critico.
Che pensi della rincorsa alla giovinezza eterna?
È una trappola. Io parlo di esperienza, non di vecchiaia. Ho 62 anni, e non mi sento più performante come a 35, ma mi sento ancora giovane perché so affrontare le cose con la testa, non solo con il fisico. La giovinezza vera è nella consapevolezza. E anche nell’accettazione: io stesso ho la pancetta, e va bene così. Mi piaccio. E se mi piaccio, posso piacere anche agli altri. È una questione di autenticità, non di perfezione.
Alla fine, cosa diresti a una persona che vuole cambiare qualcosa di sé?
Chiediti: cosa non ti piace davvero? E perché? A volte il problema non è un naso, un seno, una ruga. A volte è qualcos’altro. E allora non serve un bisturi, serve ascolto. Serve tempo. Serve equilibrio. E serve il coraggio di dirsi: mi piaccio così.