L’universo artistico di Giulia Caruso è fatto di corpi che raccontano silenzi, ferite che diventano luce, gesti che scavano nella materia come in un ricordo.
Cresciuta tra il Sahara e il Sudafrica, approdata poi nella spiritualità tellurica di Ibiza, Caruso porta nelle sue opere una femminilità ancestrale, vulnerabile e insieme potente, sospesa tra istinto e meditazione.
La sua pittura è rituale e ricerca, rifugio e svelamento. In questa conversazione, ci conduce dentro il suo mondo, dove l’arte è atto etico, respiro emotivo e forma di resistenza poetica.
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L’INTERVISTA
La tua arte racconta storie di forza, resilienza e bellezza. Quali esperienze personali o storie degli altri ti hanno maggiormente influenzato?
La mia infanzia trascorsa tra il Sahara africano e il Sudafrica ha plasmato in profondità la mia visione del mondo. Quei primi anni, così intensi e immersi nella natura, hanno lasciato un’impronta indelebile: un senso di libertà, esplorazione, e connessione con ciò che è autentico. Poi è arrivata l’esplorazione del mondo e infine sono approdata nella “isla bonita” Ibiza, in età adulta: la sua energia femminile, potente e spirituale, ha risvegliato qualcosa di primitivo e sacro in me. La mia storia personale ha preso forza e coraggio attraverso le donne che ho incontrato, i loro silenzi, le loro trasformazioni, parte del mio sguardo e del mio gesto pittorico.
Come nasce il processo creativo dietro ogni opera? Parti da un’idea precisa o ti lasci guidare dall’ispirazione del momento?
Spesso tutto nasce da un’urgenza emotiva, che diventa schizzo e poi progetto. È una gestualità istintiva che prende forma attraverso la materia: carta, legno, resina, acrilici. Il gesto iniziale è sempre libero, poi subentra la fase più meditativa, quasi rituale. È un dialogo continuo tra presenza e assenza, forma e vuoto.
Come scegli i temi e i simboli che rappresenti nelle tue opere? Ci sono elementi ricorrenti che hanno un significato particolare per te?
Il corpo femminile è il mio simbolo originario. Lo utilizzo come archetipo, come spazio di proiezione del sé e delle sue fragilità. I vuoti, le fenditure, le linee spezzate, la pelle che si manifesta attraverso i tratti di grafite sulla carta: sono tutti elementi che raccontano la vulnerabilità, ma anche la forza e la rinascita. C’è sempre un dialogo tra l’interno e l’esterno, tra quello che si mostra e quello che si custodisce.
Ritrai quasi sempre figure femminili. Chi sono le donne protagoniste dei tuoi quadri?
Sono tutte le donne che ho incontrato, ma con una parte di me stessa e delle mie trasformazioni. Alcune hanno il volto di amiche, sorelle, madri, altre sono completamente immaginarie. Tutte condividono un filo invisibile: la capacità di attraversare le emozioni e le contraddizioni, trasformandole in luce.
Spesso usi l’arte per raccontare e superare e sanare traumi e fragilità, il tuo vissuto. Ci racconti questo tuo processo.
Per me la pittura è terapeutica. È un modo per guardare in faccia le parti più fragili di me e restituire loro dignità. Non si tratta di “guarire” nel senso tradizionale, ma di accogliere. Ogni opera è una forma di ascolto, un abbraccio al mio passato. Questo processo mi ha permesso di superare momenti di profonda oscurità e di ritrovare bellezza anche nelle crepe.
I colori sono una parte importantissima del tuo complesso artistico. Come sono scelti? E qual è il tuo colore preferito?
I colori non sono mai decorativi: sono emozioni. Uso molto il rosa carne, il rosso bruciato, i neutri caldi che ricordano la terra e la pelle. Il mio colore preferito? Forse il bianco, quello che lascia spazio, che accoglie, che non urla ma avvolge. È il colore dell’attesa e del non detto.
La tua pittura è in continua evoluzione, sperimentando sempre nuove tecniche. Cosa ricerchi nella tua arte?
Cerco verità. Ogni sperimentazione tecnica nasce dal desiderio di aderire sempre di più al mio sentire. Uso la resina per creare spessori e lucentezze. Mi interessa esplorare il contrasto tra materiali freddi e gesti caldi, tra rigore e impulso.
Hai portato l’arte nelle aziende trasformando il “business as usual” in esperienze immersive. Come riesci a conciliare la tua visione artistica con le esigenze del mondo aziendale?
Riesco a farlo restando fedele alla mia poetica. Non mi snaturo. Porto negli spazi aziendali la mia estetica, i miei temi, trasformando l’ambiente in un luogo di riflessione e connessione. Collaborazioni come quelle con Six Senses, Queen of Clubs o Richmond Events mi hanno insegnato che l’arte può avere un impatto reale anche nei contesti più formali, offrendo una pausa emotiva e una nuova prospettiva.
Mi fai una lista dei tuoi cinque artisti preferiti?
Louise Bourgeois, Tracey Emin, Egon Schiele, Marina Abramović, Frida Kahlo.
Cosa è per te l’estetica?
L’estetica è una scelta etica. È il modo in cui restituiamo senso e forma al mondo. Non si tratta di bellezza in senso classico, ma di coerenza, di verità percettiva.
Arte e cultura. Sono due ambiti differenti? E cosa rappresentano per te?
Sono diversi ma intrecciati. La cultura è il contesto, l’orizzonte di senso. L’arte è l’urgenza espressiva che lo attraversa. Per me la cultura nutre l’arte, e l’arte trasforma la cultura.
C’è un desiderio artistico che non hai ancora esaudito?
Esporre in un’installazione immersiva site-specific in uno spazio naturale estremo – magari un deserto o una grotta – dove la mia arte possa far dialogare due mondi e le persone possano attraversare esperienze di un vissuto che è altro. Ci sto lavorando tanto, è un progetto in cantiere per il 2026.
Quali sono le parole chiave per descrivere la tua opera?
Femminilità, Vuoto, Forza, Materia, Rigenerazione.
E se dovessi scegliere una canzone come colonna sonora alle tue opere?
Dos gardenias di Buena Vista Social Club
Come ti definiresti in terza persona?
Giulia Caruso è un’artista che trasforma le ferite in visioni. La sua opera è un atto intimo di resistenza poetica.

Cosa ti fa battere il cuore?
Il silenzio dopo una risata sincera. I tramonti inaspettati. Le mani sporche di colore.
Quando è stata l’ultima volta che hai fatto una cosa per la prima volta? E soprattutto cosa hai fatto?
Qualche settimana fa ho donato un’opera “L’Abbraccio” al nido del reparto femminile della Casa Circondariale di Bollate, lavorando sul progetto “Abbracci in Libertà” della Fondazione Santo Versace. È stato un gesto nuovo, umano, profondo. Un abbraccio vero che mi ha insegnato tanto.
Che rischio vorresti correre oggi?
Espormi ancora di più. Mettere a nudo ciò che solitamente proteggo. Far diventare pubblico ciò che considero sacro.
Se venissi a visitare il tuo studio cosa troverei?
Resina, carte sparse, opere work in progress, musica sempre accesa, e alle pareti le mie donne che tutto osservano.
L’ARTISTA

Giulia Caruso nasce in una famiglia italiana e trascorre l’infanzia tra il Sahara e il Sudafrica, per poi stabilirsi a Pavia. Dopo gli studi in Fashion Styling presso l’Istituto Marangoni di Milano e una laurea in Media and Cultural Studies al London College of Communication, avvia il suo percorso artistico nel 2020, con una produzione fortemente connessa ai luoghi vissuti, tra Ibiza, Londra, Parigi e Milano. L’artista ha realizzato progetti con alcuni importanti brand e ha esposto in contesti internazionali, portando avanti una ricerca indipendente sui temi dell’identità e dell’intimità attraverso tecniche miste su supporti alternativi.
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