Il lavoro e le opere di Coquelicot Mafille si possono ben presentare attraverso un concetto e una pratica deleuziana: il nomadismo e la vita nomade.
Deleuze, filosofo vissuto nel secolo scorso, e parigino come l’artista, contrapponeva la vita nomade alla codificazione come attività da sempre usata dai poteri politici sovranisti, statali e nazionalisti per incasellare le vite individuali, e ben identificate.
I nomadi, per Deleuze, son quelli che vengono da fuori, che si muovono alla periferia del potere, sottraendosi all’identificazione. Le opere di Coquelicot Mafille sono nomadi esattamente in questo senso: cuce insieme culture attraverso i colori, descrive con i tessuti gli spessori dei loro inni, intreccia corpi con i fili di cotone, costruisce nuovi linguaggi giocando su diverse grammatiche e sintassi, sovrappone tratti, che diventano segni, accennando pensieri poetici.
Sono sinestesie le sue opere. Sono esplosioni temporali dei luoghi del mondo.
Il verso di Coquelicot Mafille non è solo poetico, è anche una direzione. Viaggiare, ancora: quella la sola àncora. Il nomade viaggia anche stando fermo, non deve necessariamente muoversi, il nomade può restare sul posto andando a velocità assolute. Sia che lavori sulla carta, con il legno, sia che faccia un ricamo, che stia lavorando su un muro, se non addirittura su un vetro o che stia dipingendo su un tessuto, ogni volta che si relaziona con qualcosa lo scenario cambia, l’incontro con quell’altro corpo muta, la muta e, poco a poco, viene fuori un ulteriore mondo. È il desiderio di dialogo tra le parti che muove Coquelicot Mafille – a tratti, attratti. Se le si chiedesse di dove sia, risponderebbe come Diogene il Cinico, ossia: cosmopolita – pure lei nega l’importanza delle divisioni attuate da certi poteri, ricerca, piuttosto, gli accostamenti, le aderenze, i contatti di certe potenze umane, non troppo umane. Le sue combinazioni di rapporti, di colori, di ritmi, di parole esprimono un’estetica politica intesa come studio dei comportamenti intersoggettivi attraverso i tratti o i ricami e come teoria delle relazioni tra coesistenze, a seconda dell’uso dei colori.
Quantum potes, tantum aude (quanto puoi, tanto ardisci). E lei lo fa, quanto può, con tutta sé stessa.
Ho conosciuto poche persone così attaccate alla vita, in maniera così gioiosa, fiera e con questa severa necessità di un costante e crescente atto di creazione. Deleuze si domanda che cosa sia, non a caso, l’atto di creazione e, rispetto all’opera d’arte, risponde che è un atto di resistenza alla morte. Questo è, e aggiunge che non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non c’è ancora. Se c’è una cosa che credo faccia Coquelicot Mafille è darci l’opportunità a noi, attraverso di lei e le sue opere, di iniziare a sbirciare su quei popoli che non ci sono ancora, o forse su un’umanità che, è bene auspicarsi, possa mostrarsi a noi presto – ma che lei già conosce. Il suo è un nomadismo poetico – e si sa: i poeti, in fondo, sono i più arrischianti.
Giorgia Visentin
INFO
Coquelicot Mafille
OPEN STUDIO
studio temporaneo : restitution publique
venerdi 26, sabato 27, domenica 28 febbraio 2021
via Vetere 12, Milano 20123, dalle 11 alle 18
3393742017 per appuntamento e informazioni