Nel corpus creativo di Polina Kanis, il corpo diventa un dispositivo di pensiero, una macchina fragile che registra gli attriti tra potere e desiderio.

È insieme superficie e archivio, luogo in cui la storia si sedimenta come un tatuaggio invisibile. “Politics of Rotation”, la sua ultima mostra aperta alla PAKT Foundation di Amsterdam, non è soltanto un progetto performativo: è un esperimento di immersione totale nel cuore di un sistema di dominio, dove la danza si fa linguaggio di sopravvivenza e la nudità diventa grammatica politica.
Polina attraversa l’idea stessa di rappresentazione, spogliandola del suo statuto estetico per restituirla come esperienza viscerale, quasi sacrale. Il suo gesto artistico non illustra: disinnesca. Non denuncia: scava, fino a toccare la zona cieca dove il corpo smette di essere identità e si fa campo di forze. In questo spazio sospeso, tra l’eco metallica del palo e il silenzio del controllo, l’artista interroga la possibilità di una libertà minima — quella che nasce dal desiderio, dall’errore, dal respiro che ancora resiste.
L’abbiamo incontrata per farci raccontare il meccanismo della sua arte.
L’INTERVISTA
La tua mostra “Politics of Rotation” nasce da un’esperienza diretta e radicale: tre mesi di lavoro come pole dancer in un club di Mosca. Il tuo corpo è diventato al tempo stesso strumento e territorio di resistenza. Quando hai percepito per la prima volta che il tuo corpo non era più soltanto personale, ma inevitabilmente politico?
La sensazione di vulnerabilità – quella percezione del corpo non più come qualcosa di esclusivamente personale ma esposto ai meccanismi del potere – è qualcosa che si sperimenta costantemente sotto un regime autocratico.
Ad esempio, provo paura ogni volta che vedo la polizia o qualsiasi rappresentante dell’autorità statale. Quando ho iniziato a lavorare con la performance art, ho capito che, attraverso certi gesti, cominciavo a vivere il mio corpo in modo diverso. Si trasformava in uno strumento attraverso il quale i meccanismi del potere potevano essere rievocati e rielaborati.
In Workout (2011), per esempio, un’istruttrice di fitness guida un gruppo di anziani in una serie di esercizi che si trasformano gradualmente da routine ginnica a marcia militare. In Lesson (2011), assumo il ruolo di un’insegnante che, con l’aiuto di un fischietto, conduce una lezione sulla Patria. È una portatrice di potere-sapere, che modella codici patriottici e simboli dell’idea nazionale.
Il progetto Politics of Rotation si differenzia perché ho intrapreso quell’esperienza al di fuori della mia pratica artistica. Non ero un’artista che entrava in un club per performare – una posizione che implicherebbe restare comunque all’interno del campo artistico, mantenendo una certa distanza dall’azione stessa. Ero semplicemente una ragazza che andava a lavorare in uno strip club: ho scelto consapevolmente di rinunciare a quel livello di protezione che la posizione meta-artistica può offrire. Perché, per me, mettere in scena una performance come artista in un Paese che ha lanciato un’invasione su larga scala dell’Ucraina significa restare dentro i confini del sistema artistico istituzionale dello Stato aggressore. Significa contribuire alla normalizzazione della violenza, rifiutandosi di vederla. Cercavo un modo per catturare l’escalation delle politiche di genere repressive in Russia e trovare un linguaggio personale per indagarle.
Hai descritto il club come un “microcosmo” del potere autoritario e patriarcale. Quali dinamiche di controllo e resistenza hai osservato e vissuto in quel contesto?
Il controllo era presente in ogni fase del lavoro. All’ingresso del club bisognava scansionare il viso; alla fine del turno, lo stesso. A causa del trucco pesante, il sistema spesso non riconosceva la stessa persona. Se ti dimenticavi di fare il check-in o il check-out, il turno non veniva conteggiato e quindi non veniva pagato. Per poter uscire fisicamente dal club, la manager doveva disegnare un piccolo segno sulla mano con una penna a sfera: senza quel segno non si poteva uscire. Quel segno significava che non avevi debiti, non avevi rubato nulla e non avevi violato le regole. L’immagine di quella marcatura sulla mia mano – la prova che mi era consentito lasciare il club – è presente in mostra.
L’assenza di privacy era parte integrante del sistema. Prima di ogni turno c’era l’“entrée”, la procedura di accesso. In un corridoio, sotto le telecamere di sorveglianza, le ragazze si mettevano in fila davanti alla manager. Ognuna faceva un passo avanti, chiudeva e apriva gli occhi per mostrare il trucco, alzava le braccia per mostrare le ascelle, si girava per mostrare l’acconciatura e si toglieva le mutandine per dimostrare che la zona pubica fosse rasata. Poi mostrava le gambe, che la manager toccava per verificarne la morbidezza. Era obbligatorio indossare un braccialetto e un gioiello al collo. La manager decideva se la ragazza fosse idonea a lavorare o meno.
L’unica forma di resistenza a questo controllo totale era l’inerzia e la depersonalizzazione. Ogni ragazza sceglieva per sé uno pseudonimo e un look. Il nome d’arte veniva inserito nel contratto, e da quel momento tutti nel club la chiamavano solo con quel nome. Era un modo per creare distanza: ciò che accadeva nel club non accadeva a te, ma a un’altra, con un altro nome.
Spesso le ragazze restavano sedute sui divani di pelle della sala, lontane dai clienti, senza voglia di muoversi. La manager doveva spingerle ad avvicinarsi agli “ospiti”. La maggior parte del tempo, le ragazze esistevano in una modalità di conservazione dell’energia: se non sottoposte a una forza esterna, restavano in uno stato di quiete. Alzarsi significava essere pagate per farlo.

Un corpo nudo può essere l’espressione ultima della libertà e della poesia?
Dipende tutto dallo scopo e da chi lo utilizza. Io non metto in scena il corpo come espressione di qualcosa: è parte di un protocollo, l’elemento processuale di un’opera specifica. Il corpo nudo, in questo caso, non è simbolico: è esposto perché l’esposizione stessa fa parte del protocollo. Eppure, ciò che conta è che, anche come protocollo, il corpo continua a suscitare desiderio.
Mi interessa il potere emancipatorio del desiderio — capire se il desiderio possa esistere come forma di resistenza, e non appartenere al potere autoritario.
La mostra include non solo video e fotografie, ma anche documenti, pannelli e performance. Cosa dobbiamo aspettarci visitandola?
Per me è importante che la pratica artistica non resti confinata alla sola comunità dell’arte. Ritengo essenziale comunicare la finalità e la rilevanza sociale dei temi che esploro, pur lasciando spazio a un’interpretazione personale.
Desideravo coinvolgere attivamente il pubblico nelle tematiche della mostra, ed è per questo che ho sviluppato un programma pubblico di eventi.
Per attivare e contestualizzare l’esposizione in ambito locale, ho organizzato un dibattito e una performance che esplorano alcuni aspetti delle Rules of Conduct for Strippers – le regole di condotta per spogliarelliste – che ho creato per questo progetto. Ho selezionato alcune regole da questo codice come punto di partenza per riflettere sulle esperienze legate alla politica del corpo nei Paesi Bassi.
Tutti noi, come soggetti del potere statale, “lavoriamo” nel grande strip club della società: volevo vedere come questo insieme di regole sarebbe stato percepito, violato e trasformato dai partecipanti.

Politics of Rotation – In the fitting room
2023-2024
Courtesy of Polina Kanis
Osservando il contesto olandese, spesso descritto come “progressista” in materia di sex work, quali contraddizioni hai rilevato, soprattutto in confronto al sistema russo?
Amsterdam è la capitale europea del sesso. Con il suo discorso sul lavoro sessuale e le relative condizioni, offre un terreno fertile per esplorare la politica del corpo locale. L’obiettivo principale della mia personale è indagare come le dinamiche dei club di striptease si riflettano nella vita quotidiana nei Paesi Bassi.
La Russia, con il suo modo di pensare e agire, purtroppo non è così lontana come potremmo credere dalla nostra posizione ad Amsterdam. Come possiamo evitare che il potere autoritario prenda il sopravvento? Quali corpi si sentono vulnerabili ad Amsterdam? Come può un corpo vulnerabile resistere?
Quali cliché e regole subiscono i corpi vulnerabili – come migranti o comunità non bianche – all’interno dello Stato sempre più orientato verso la destra radicale? Prendendo la Russia autoritaria come caso estremo e osservandola dal contesto di Amsterdam, voglio evidenziare il pericolo della crescita senza precedenti delle politiche di estrema destra in Europa.
Se dovessi scegliere tre parole per definire la tua arte, quali sarebbero?
Politica, performativa, pornografica.
Se le tue opere avessero una colonna sonora, quale canzone sceglieresti?
Mi viene in mente il paesaggio sonoro di Politics of Rotation: suoni grezzi – l’attrito del corpo contro il metallo, lo scricchiolio degli stivali di vernice, il ronzio di un palo che gira.
Hai avuto mentori? Quali sono i tuoi riferimenti artistici?
Sì, certamente. Ho ricevuto grande sostegno dai miei insegnanti alla Rodchenko Art School, durante e dopo gli studi.
Successivamente, durante la mia residenza alla Rijksakademie van Beeldende Kunsten, ho trovato grande supporto negli artisti con cui condividevo l’esperienza e nei tutor.
Per quanto riguarda i riferimenti artistici, mi è diventato difficile pensarli in termini tradizionali. Nel progetto Politics of Rotation, ho volutamente cercato di allontanarmi da riferimenti artistici diretti. Le mie principali fonti di riferimento erano le ragazze che lavoravano al palo. Sono loro che ho osservato e da cui ho imparato.
Hai un desiderio artistico che non hai ancora realizzato?
Sì, molti. Ad esempio, mi piacerebbe realizzare un film.
Se entrassi nel tuo studio, cosa troverei? Quadri, libri, piante, tecnologia, dischi…?
Il mio spazio di lavoro non è propriamente uno studio, ma più uno study, una stanza di studio. L’atmosfera è più quella di un salotto: una scrivania, una sedia, una poltrona, libri e il mio laptop.
A volte ho bisogno di spazi che mi aiutino a organizzarmi, per questo lavoro spesso in caffè o biblioteche. Da un lato ho la solitudine necessaria per concentrarmi sui miei materiali; dall’altro, posso distrarmi brevemente osservando ciò che accade intorno a me, senza però uscire completamente dal flusso del pensiero.
Ti senti più attratta dalla razionalità o dalle emozioni?
Non riesco a comprendere un progetto nel suo insieme finché non trovo un’immagine – una connessione non razionale. È un processo molto intuitivo e sottile. Ma nasce da un lavoro disciplinato e sequenziale con i materiali, l’archivio e il contesto.
Quando quell’immagine o quella serie visiva emergono, inizio a strutturare il progetto, allineandolo costantemente alla logica della mia pratica.
Ad esempio, in The Friendship Tree, capii fin dall’inizio che il focus della mia ricerca erano le rovine del progetto ideologico sovietico, esplorato attraverso il suo simbolo: The Friendship Tree, un esperimento di bioingegneria sovietica. Ma, nonostante il concetto mi fosse chiaro, il progetto prese forma solo quando, durante la ricerca, trovai informazioni sull’hotel Hyatt.
Come The Friendship Tree, si trova a Sochi e porta con sé un valore simbolico. Nella mia mente apparve subito un’immagine: una stanza d’albergo, i segni della presenza di un ospite, una finestra affacciata sul mare.
L’audioguida sul letto divenne parte essenziale dell’opera, responsabile della dimensione concettuale. La voce della guida racconta la storia dell’Albero dell’Amicizia e del progetto imperiale sovietico, ponendo la domanda centrale: “Di cosa si nutre l’Albero dell’Amicizia?”
Nel frattempo, la videocamera si allontana lentamente dal mare per tornare verso la stanza.
EXHIBITION VIEW
L’ARTISTA

Polina Kanis (nata nel 1985 a San Pietroburgo, Russia) è un’artista visiva con base a Ewijk, nei Paesi Bassi. Si è diplomata alla Rodchenko Art School di Mosca (2011) e, tra il 2017 e il 2018, ha partecipato al programma di residenza artistica della Rijksakademie van Beeldende Kunsten di Amsterdam.
Il suo lavoro è stato presentato in numerose mostre personali e collettive, festival e rassegne cinematografiche, tra cui la personale alla Haus der Kunst di Monaco (2017), il programma VISIO a Palazzo Strozzi di Firenze (2019), il programma parallelo di Manifesta 10 (2015), la Ural Industrial Biennale of Contemporary Art, il Garage Museum of Contemporary Art (2014, 2018), la VI Moscow International Biennale of Young Art (2015), l’Hamburg Short Film Festival (2019), “Other Zones” — programma del padiglione della Federazione Russa alla Biennale di Architettura di Venezia (2020) — e il Contemporary Art Festival Survival Kit al Latvian Centre for Contemporary Art di Riga (2020), oltre al programma Artist’s Film International (2021-2022) e molte altre occasioni.
Le sue opere fanno parte di importanti collezioni pubbliche e private, tra cui il Fonds régional d’art contemporain Bretagne (Frac Bretagne), la Fondazione In Between Art Film di Roma, la Fondation Kadist di Parigi, e altre. Nel 2020 è stata artista in residenza presso l’ISCP di New York.
LA MOSTRA
Politics of Rotation
the latest solo exhibition of Polina Kanis explores the strip club as a microcosm of authoritarian power
PAKT Foundation,
Zeeburgerpad 53,
1019 AB Amsterdam
Fino al 26 ottobre