Ester Grossi Funeral5, acrilico su tela, 100X70, 2009.j

David Lynch – Astrazione nel realismo. Sogno nella realtà dell’American scene

Il 16 gennaio il mondo ha perso David Lynch, regista visionario e artista senza tempo.

Per omaggiarne la sua straordinaria eredità creativa, pubblichiamo uno stralcio della tesi di laurea in Caratteri del cinema contemporaneo scritta nel 2005 da Ester Grossi, pittrice e artista poliedrica, intitolata “The Straight Story. Lynch e la pittura regionalista”.

In questo saggio, Grossi esplora la profonda connessione tra il linguaggio cinematografico di Lynch e la pittura, evidenziando come il regista americano “pensi come un pittore”. Le sue immagini non si limitano a narrare, ma svelano frammenti di realtà altrimenti invisibili, costruendo mondi sospesi tra il tangibile e il perturbante.

Di seguito, un estratto che getta luce sulla poetica di Lynch e sulla sua capacità di far vibrare l’invisibile attraverso il visibile.

Un pino e una tazza di caffé:
la combinazione di questi oggetti
mi appare assolutamente drammatica.

 

David Lynch

Michel Chion scrive riguardo Mulholland Drive: «Grazie soprattutto a qualche piano ripreso dal cielo e a certe scene ambientate sulle colline (il cui simbolismo ascensionale è semplice), si sente, intorno a Los Angeles, la prossimità di una natura terribile e selvaggia.

Una sensazione, questa, che probabilmente gli Stati Uniti danno più che di qualsiasi altro paese, e che Lynch è tra i pochi capaci di rendere al cinema: la sensazione di un continuo sfiorarsi della modernità quotidiana e di una natura vergine, indomita, che non sembra fatta per l’uomo, a dire il vero»[1].

Di nuovo, nature e mind. La considerazione che Chion fa riguardo all’ultima pellicola di David Lynch, può essere ribadita anche per altri suoi film. La foresta che circonda Twin Peaks o la natura addomesticata delle aiuole di Velluto Blu, mostra sempre e comunque quel lato inquietante che secondo lo stesso regista può sottostare ad ogni cosa. Una natura non del tutto pacificata con “gli abitanti di casa”.

Tale conflitto è così ricorrente nell’arte americana da assumere un aspetto nostalgico, non a caso in una nazione che è passata in pochissimo tempo dall’essere una verde repubblica incontaminata ad un paese ultra-industrializzato con tanto d’armi nucleari. Ma a guardare bene i suoi film, si direbbe che Lynch consideri meno complicato il mondo naturale di quello umano, probabilmente perché non costretto a fare i conti con i fantasmi della propria psiche. Non potrebbe essere altrimenti per un uomo cresciuto in campagna e per il quale andare a New York, in visita dai nonni materni, volesse dire “assaggiare il gusto dell’orrore”.

Questa perenne tensione tra i due mondi si traduce in Lynch in modo più generico e quasi ingenuo, nel conflitto atavico tra il bene e il male. Sorprende come queste due facce del reale scorrano parallelamente anche nel nostro giardino, dove l’erba dal verde squillante tenta di nascondere un’incessante lotta vitale tra insetti. Conoscere la città, per un bambino cresciuto in un quartiere dalle staccionate bianche, i cieli blu e i ciliegi, ha significato varcare l’aspetto rassicurante delle cose per afferrarne l’inquietante. A proposito, mai soprannome gli fu più congeniale di «il Jimmy Stewart venuto da Marte»[2].

Lynch attribuisce la sua capacità d’esploratore dell’aspetto fenomenologico del mondo al “pensare come un pittore”[3]. Egli crea storie partendo da immagini, si esprime con esse e rifiutandosi di dare spiegazioni razionali ed univoche alle trame dei suoi film, ne parla ricorrendo ad altre immagini. Immagini su immagini.

“Pensare come un pittore” sta a significare, riuscire a creare forme in grado di penetrare il reale, di rendere visibili e vivibili gli atri mondi che lo animano e che il nostro occhio viziato dalle familiari tende a sorvolare. C’è chi parla, riguardo a questo suo sguardo da entomologo, di “mancanza di inibizione filmica”[4].

Di come Lynch erediti lo sguardo della pittura moderna (Cézanne, Klee, Bacon) e di come si ricolleghi alla nozione di Figurale, ne ha scritto in modo compiuto Daniele Dottorini[5], ma il debito che il regista ha nei confronti degli artisti citati è soprattutto di tipo concettuale. Riguardo Francis Bacon si può parlare anche di un vero e proprio richiamo figurale alle opere del pittore (più o meno consapevolmente), evidente in particolar modo nelle scene dai contorni più “confusi”, raffiguranti solitamente lo sdoppiamento d’identità di un personaggio o una situazione onirica, basti pensare a Strade perdute o Mulholland Drive.

Ciò che c’interessa prendere in considerazione in questa sede, è il rapporto che Lynch intrattiene a livello figurativo con alcuni pittori, specialmente dell’American Scene. Non possiamo certo parlare di citazioni dirette e volute di quadri (secondo Jaques Aumont, uno dei possibili rapporti tra cinema e pittura)[6].

Sicuramente non di riferimenti ad opere d’arte dichiarati secondo la pratica pasoliniana del tableau vivant. Piuttosto si potrebbe far riferimento all’ “effetto quadro” di cui parla Antonio Costa, che riguarda i diversi casi in cui «l’inquadratura evoca una pittura, o perché la cita esplicitamente, o perché ne riproduce determinati effetti luministici, cromatici o di organizzazione spaziale, o perché ne imita la staticità, la sospensione temporale, la selettività cromatica, o perché s’inserisce nella logica compositiva o iconografica d’uno stesso genere»[7].

Parlando di Lynch possiamo escludere la citazione diretta, per favorire l’idea di un cinema nel quale sono le qualità dell’inquadratura a richiamare allo spettatore una pittura. Tale “effetto quadro” in ognuno dei casi considerati da Costa, produce una sensazione straniante, perché indebolisce l’effetto di realtà del cinema, la cui peculiarità è il movimento, contraddicendolo con l’effetto dipinto, che introduce una dimensione di fissità.

In altri termini, lo sguardo dello spettatore si trova a vivere due differenti simulazioni del reale, passando da una rappresentazione variegata della realtà a livello temporale, spaziale e cromatico ad una caratterizzata da «un tempo sospeso, uno spazio definito e una selezione cromatica»[8].

L’intenzione più esplicita dell’ “effetto quadro” è la messa in primo piano della dimensione soggettiva, autoriale a dispetto di quella diegetica.

Nei film del regista del “perturbante” per definizione, l’ “effetto quadro” non è circoscritto, come si potrebbe pensare, alla semplice scena onirica, ma riguarda anche la rappresentazione del mondo “reale” nel quale si muovono i suoi personaggi. In verità sarebbe anche errato parlare di mondo illusorio e realtà concreta come di due immaginari separati, visto che in Lynch si confondono e amalgamano.

Se escludiamo le pellicole dall’ambientazione “incollocabile” ( Eraserhead – La mente che cancella), fantascientifica (Dune) ed europea (Elephant Man), balza agli occhi come Lynch abusi della più rassicurante iconografia dell’American Way of life. Immagini prettamente USA, che la prima vera scuola pittorica americana, l’American Scene, aveva cercato di diffondere con spirito nazionalistico.

A detta di Andy Warhol «L’idea di America è meravigliosa perché più una cosa è uguale più è americana»[9].

“Una cosa” uguale a cosa? Forse alla nostra idea di America, che coincide, volenti o no, con le immagini che la pittura e in seguito il cinema, ci hanno somministrato. Sempre Warhol: «Un ascensore. Un portiere. Una cassetta delle lettere.

Una lavatrice. Un bidone della spazzatura. Un albero di fronte. Un cinema all’angolo»[10]. Una descrizione diretta e ordinaria, eppure così americana, proprio perché lascia parlare gli oggetti.

L’America materiale, dei paesaggi talmente consistenti da sembrare oggetti plastificati, è quella del realismo americano. Lynch parte da lì, o ancor meglio dal “realismo metafisico” di Edward Hopper o di un pittore regionalista come Grant Wood. Ma sia ben chiaro: non li cita esplicitamente e anche se nelle interviste parla volentieri del suo amore per Hopper e Bacon, dimostra piuttosto di condividere con loro lo stesso sguardo straniante sull’American scene. Straniante, ma non critico come nelle loro opere.

La periferia di Lynch è quanto di più americano ci possa essere. La lynchtown (neologismo di Chion)[11] è più o meno sempre la stessa: graziose villette, dinner a go-go, college di ragazze un po’ ochette, un police departement che ne assicura il funzionamento ed una foresta, sempre poco rassicurante, che la circonda e ne permette il sostentamento. Insomma, una topografia abbastanza consueta. Eppure è proprio questa superficie fin troppo perfetta, acrilica, a farci dubitare della sua effettiva veridicità.

Osservando gli establishing shot iniziali di Velluto Blu (lynchtown per eccellenza), le tele di Hopper o di Grant Wood (anche se quest’ultimo si dedicò alle cittadine rurali) sembra quasi che l’astrazione sia in parte una questione di mancanza di senso di movimento delle immagini, che si presentano quasi come scatti fotografici.

L’incipit di Velluto Blu è così chiaro alla nostra memoria, perché costituito da magnifiche immagini autonome, da quadri filmati che scorrono di fronte ai nostri occhi con una lentezza tale, quasi alla stregua di frame stop, che ci permette di registrarle e comprenderne l’eccessiva pittoricità.  È proprio il loro “effetto pittorico” a renderle così astratte.

La fissità generalmente non rende una sensazione di quiete, piuttosto di precarietà, perché ci mette nella posizione di aspettare qualcosa, forse una sua possibile messa in moto. I personaggi delle tele di Hopper sono sempre in procinto di fare qualcosa, attendono un cambiamento in agguato. Le situazioni rappresentate appaiono come incipit di storie. Se Lynch ha dichiarato che le tele del pittore lo costringono immediatamente a sognare, Wim Wenders ne ha parlato come di «inizi di un film americano».

Roy Menarini definisce il trattamento lynchiano dell’iconografia dell’American life, “iperrealismo modificato”, attraverso il quale «egli insinua un sospetto di falsificazione all’interno di un mondo che viene percepito come esattamente credibile»[12].

Come la Pop Art e l’iperrealismo Lynch dimostra un’attenzione maniacale nei confronti del vivere americano, ma differentemente dai due movimenti artistici, non è intenzionato a criticarne i valori etici. Se di critica si vuol parlare, certo non la si può circoscrivere alla società americana. Lynch parla del mondo in modo più universale, del bene e del male, del bianco e del nero e lo fa attraverso la nazione che conosce meglio, l’America.

In realtà, la lynchtown potrebbe essere ovunque, visto che è soprattutto un luogo mentale. Probabilmente è ciò che Lynch definisce la parte di “nulla” che c’è in America (come ovunque), cioè quei luoghi dalle coordinate spazio-temporali scombussolanti che necessitano però di essere penetrati e vissuti. Esempi sono piccoli spazi come la Stanza Rossa di Twin Peaks, il radiatore di Eraserhead, ma anche zone dal perimetro più esteso come la Lumberton di Velluto Blu.

Che siano grandi o piccoli, questi ambienti sono caratterizzati da una certa “atemporalità”, che contribuisce a rendere quell’astrazione di cui si parlava. Gli spazi lynchiani, infatti, sono spesso arredati in modo incoerente; oggetti di epoche differenti convivono spiazzando lo spettatore, impossibilitato a definire la precisa epoca storica del film. Questa indecifrabilità temporale degli ambienti è tipica anche delle tele di Hopper, dove insegne luminose ultramoderne coabitano con edifici retrò di inizio Novecento.   Astrazione nel realismo; sogno nella realtà dell’American Scene. È quindi una questione di sguardo straniante sulla realtà.

C’è un film di Lynch nel quale la m.d.p. mantiene una certa distanza pacificata con la superficie delle cose, decide di non penetrarla per scoprirne il marcio; eppure, nonostante ciò, induce comunque a dubitare della pacatezza delle immagini presentate. Si tratta di Una storia vera, pellicola del 1999, considerata erroneamente da molti un’anomalia all’interno della filmografia lynchiana.

Anomala perché lenta (lentissima), apparentemente solare e poco propensa all’esplorazione di quelle strade perdute dell’inconscio tanto care al regista. Ma a guardarla bene questa “parentesi disneyana”, che da un punto di vista formale (luoghi e tempi) appare come un capovolgimento del cinema di Lynch, dimostra di essere una parente stretta delle pellicole precedenti.

Infatti, nonostante l’intento di riapplicarsi al cinema classico, dopo l’esperienza di Elephant Man, la grammatica del cinema del regista del Montana è sempre la stessa, le sue posizioni morali intrise di cliché anche, e identico è il suo sguardo perturbante sulla pelle delle cose e del mondo. Anche in questo caso è bandita l’ambientazione metropolitana considerata tanto cool; l’America di Una storia vera è quella delle piccole comunità rurali, disseminate sul territorio nazionale, visibili in tante pellicole della New Hollywood.

Ma se si rivolge ancora una volta lo sguardo alla pittura della American Scene, salta agli occhi come l’ambientazione sia legata all’iconografia delle tele della scuola regionalista degli anni venti e trenta. Come Grant Wood, Thomas Benton e John Curry anche Lynch si inoltra in sterminati campi di granoturco, si insinua nel quieto vivere delle ghost town rurali, sperando di trovarvi con un pizzico di naiveté, la straight story, l’America dai valori genuini e forse la concretizzazione di quell’ideale pastorale tanto caro alla cultura americana[13].

NOTE

[1] M. Chion, Mullholland Drive. Play it for real, in “Positif”, n.490, dicembre 2001, p.81, (cit. in  Attraverso Mullholland Drive”. In viaggio con David Lynch nel luogo di un mistero, [a cura di] C. Bisoni, Il principe costante, Pozzuolo del Friuli 2004, p. 105).

[2] Lynch secondo Lynch, (a cura di) C. Rodley, Baldini & Castoldi, Milano 1998, p. 13.

[3] D. Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le mani, Genova 2004, p. 17.

[4] AA. VV., David Lynch. Film, visioni e incubi da Six Figures a Twin Peaks, Sorbini, Roma 1991, p. 17.

[5] D. Dottorini, op. cit., pp. 25-41.

[6] J. Aumont, L’occhio interminabile. Cinema e Pittura, Marsilio, Venezia 1991.

[7] A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2004, p. 311.

[8] Ibid., p. 312.

[9] A. Warhol, La filosofia di Andy Warhol, Bompiani, Milano 2005, p. 87.

[10] Ibid., p. 127.

[11] M. Chion, op. cit. pp. 97-136.

[12] R. Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002.

[13] Franco La Polla sottolinea come l’ambiente di Una storia vera, così come quello di molte pellicole della New Hollywood, sia quello dell’America rurale «che spesso e volentieri si presenta come la versione di una pastorale nazionale» (Franco La Polla, Niente staccionate in Paradiso, in “Cineforum”, n. 393, aprile 2000, p. 10).

L’AUTRICE

Ester Grossi, nata ad Avezzano (AQ) nel 1981.
Dopo il diploma in Moda, Design e Arredamento, consegue la laurea specialistica in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale presso l’Università di Bologna. Si dedica da anni alla pittura ed ha all’attivo diverse mostre in Italia e all’estero. Ha realizzato inoltre manifesti per festival di cinema, musica e teatro, cover di album di band internazionali; collabora frequentemente con musicisti, video-artisti e designer per la realizzazione di progetti multidisciplinari.

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