Nilufar Milano ospita “Please Do Not Sit”, un viaggio nell’universo creativo dell’artista israelo-americano Shlomo Harush.
Non una semplice mostra ma un dialogo profondo tra materia e pensiero, tra oggetti e simboli, tra luce e ombra.
Curata da Nina Yashar, fondatrice di Nilufar, la rassegna celebra la capacità dell’arte di trasformare l’ordinario in straordinario, offrendo uno sguardo inedito sull’essenza della nostra esistenza.
Shlomo Harush si muove lungo i confini tra il tangibile e l’intangibile, plasmando oggetti e materiali come fossero metafore della vita stessa. Le sue opere, siano esse sculture, installazioni o disegni, incarnano la tensione perpetua tra la stabilità della forma e la fluidità del cambiamento.
Con un approccio che intreccia forza fisica e delicatezza concettuale, Harush invita il materiale a rivelare la propria essenza, creando un dialogo in cui la materia non è più dominata, ma diventa protagonista, co-creatrice di significati.
La luce e l’ombra, il disegno e la tridimensionalità si intrecciano senza confini nelle opere dell’artista, in un movimento continuo che sfida la nostra percezione dello spazio e del tempo.
Attraverso materiali come alluminio, bronzo e ottone, Harush costruisce forme che sono primitive e senza tempo, familiari eppure sorprendenti. Il suo uso del filo metallico per disegnare nello spazio crea composizioni leggere e trasparenti, che sembrano fluttuare tra la realtà e l’immaginazione, catturando l’effimero e rendendolo eterno.
L’abbiamo incontrato e con lui visitato la mostra.
L’INTERVISTA
La tua nuova mostra sembra rappresentare un’evoluzione importante nella tua ricerca artistica. Puoi raccontarci come è nata l’idea del progetto?
Il progetto è nato circa un anno fa. È il risultato della continuazione ed evoluzione della mia ricerca tra disegno, scultura e scrittura, dove cerco di unire idee astratte con la fisicità dei materiali. In questo caso, il lavoro si sviluppa attraverso un linguaggio multiforme, che combina diverse tecniche e supporti.
Fondo soggetti e oggetti quotidiani nel mio lavoro, manipolandoli per allontanarli dall’archetipo verso nuovi e inaspettati emblemi”.
Hai parlato del materiale e del suo aspetto “caldo”, quasi come fosse pelle. Come hai scelto i materiali per questa mostra?
I materiali che uso come alluminio, bronzo e acciaio sono fondamentali. Ho voluto lavorare con superfici che avessero un calore intrinseco, qualcosa che ricordasse la pelle. Gli interventi che realizzo sulle superfici sono come “tatuaggi”, che diventano parte della superfice, trasformano il materiale di base e aggiungono una dimensione tattile e visiva completamente nuova.
Questa trasformazione continua sembra dare all’opera un significato mutevole, non trovi?
Assolutamente. Ogni posizione, ogni luce, anche la più piccola, trasforma il lavoro. Anche il tocco aggiunge una dimensione interpretativa: la scrittura diventa qualcosa che il corpo percepisce, non solo l’occhio. È un dialogo costante tra fisicità e idea.
Mi colpisce l’idea della tridimensionalità e del rapporto con la luce. Puoi approfondire?
La luce è qualcosa di centrale nella mia arte. Le ombre e i riflessi non solo completano l’opera, ma in qualche modo la definiscono. Durante l’allestimento, ho sperimentato con la luce per creare un’illusione di profondità che rende ogni prospettiva unica.
La luce è vita. Mi affascina come un filo luminoso in una lampadina rotta, simbolo di fragilità e resistenza al tempo stesso. È un elemento che ricorre nei miei lavori e che continuo a esplorare con curiosità.
Hai accennato al tuo lavoro con il metallo. Qual è il significato di questo materiale nella tua pratica?
Il metallo è una sfida fisica e intellettuale. Lavorarlo mi richiede uno sforzo fisico che è parte integrante del processo creativo. Ogni segno, ogni rivetto aggiunge una storia, quasi come fosse una ferita o una cucitura, che dialoga con il materiale originale trasformandolo.
In che modo questa mostra dialoga con lo spazio espositivo?
Ho voluto lasciare spazio all’opera di respirare, riducendo al minimo gli elementi superflui. Ogni installazione si relaziona con l’ambiente, che diventa parte integrante dell’esperienza visiva.
Nelle tue opere, le parole sembrano avere un ruolo molto particolare. Puoi parlarci di questo approccio?
Esattamente, per me la parola non è solo comunicazione, ma diventa una texture, una componente visiva. È qualcosa che conferisce un valore aggiunto all’opera. Amo lavorare con pezzi unici, e usare la parola in questo modo la trasforma in qualcosa di eterno, una traccia che rimane.
Questo concetto di scrittura è presente anche nelle tue sedie e i tuoi tavoli?
Sì, anche sulle sedute e sui tavoli cerco di integrare la scrittura. È un processo che si evolve: posso scrivere da destra a sinistra o creare piccole variazioni che rendono ogni pezzo unico. È come un canto, qualcosa di intimo e personale.
Parlando di design e arte, vedi una distinzione netta o pensi che i confini siano sfumati?
Non vedo confini netti. Per me è tutto una questione di istinto e creatività. Ho vissuto a Milano, dove il design è parte della cultura, e mi ha influenzato molto. Ma considero la sedia un oggetto d’arte, un tema ricorrente nei miei lavori. Ho persino realizzato una mostra intitolata Il ritratto della sedia, trattandola come un ritratto di una persona.
In che modo la funzionalità di un oggetto influisce sul tuo processo creativo?
Dipende. L’architetto ha vincoli, come la sicurezza o l’abitabilità, mentre nell’arte c’è più libertà. Tuttavia, a volte proprio i vincoli possono stimolare la creatività. È un equilibrio tra libertà e struttura.
Nelle tue opere recenti appaiono elementi come i pesci, teddy bear, gabbie. Qual è il loro significato?
Questi elementi rompono la stabilità dell’insieme, creano un senso di leggerezza. Mi piace costruire ambienti in cui tutto dialoga. È un processo istintivo: non pianifico in anticipo come si integreranno gli elementi, ma quando tutto prende forma, il risultato ha una sua coerenza.
Hai parlato anche di illusioni di rottura, come in un divano rotto che può ancora essere usato. Qual è il messaggio dietro questo concetto?
È il contrasto tra stabilità e precarietà. Un divano rotto che ancora funziona crea un’illusione, invita lo spettatore a riconsiderare il rapporto tra l’oggetto e la sua funzione. È un gioco di equilibrio e sorpresa.
Puoi sintetizzare con cinque parole chiave questa mostra?
Creatività, materia, purificazione, trasformazione e naturalmente arte.
L’ARTISTA
Nato a Gerusalemme nel 1961, Shlomo Harush ha studiato storia del Medio Oriente all’Università Ebraica di
Gerusalemme e fotografia presso l’Hadassa Community College di Gerusalemme (1987-1990).
Dopo aver vissuto e lavorato a Milano dal 1990 al 1997, Harush si è trasferito a New York City nel 1998, dove lavora in uno studio a Brooklyn creando arte in varie discipline: sculture, fotografia, installazioni, pittura e mixed media.
Negli ultimi anni, Harush si è concentrato principalmente sulla metamorfosi delle forme e dei materiali, creando
affascinanti interrelazioni tra arte e industria e spingendosi costantemente oltre i confini.
Attraverso l’esplorazione di materiali industriali, tra cui alluminio, bronzo e acciaio, egli fonde soggetti e oggetti di uso quotidiano nelle sue opere, manipolandoli per allontanarsi dagli archetipi verso simboli nuovi e inaspettati.
LE OPERE
INFO
“Please Do Not Sit”
SHLOMO HARUSH
20 Novembre 2024—Marzo 2025
NILUFAR
Via della Spiga 32, 20121, Milano