Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce.

Intervista – Lorenzo Urciullo in arte Colapesce “Doppia Uso Singola” alla ricerca dell’architettura dell’assenza

Alla Galleria Patricia Armocida di Milano, la fotografia diventa diario intimo, archivio quasi archeologico-sentimentale e racconto silenzioso.

“Doppia Uso Singola”, la prima mostra personale di Lorenzo Urciullo – in arte Colapesce – si rivela come un varco nell’immaginario visivo di un artista che ha fatto della parola, della musica e ora dell’immagine, una forma di necessità poetica.

Duecento scatti, selezionati da un archivio privato di oltre dieci anni, compongono un trittico esistenziale che oscilla tra lo sguardo documentario e quello lirico: dalle stanze anonime degli alberghi attraversati durante i tour (D.U.S.), alla dolce intimità familiare-seriale di Teresa e Anna, fino alla vertigine metafisica di Giorni Sfiniti, omaggio alla Sicilia più ambigua e viscerale.

Lorenzo Urciullo, Teresa e Anna,#01, 2020,Fine art Inkjet print on 100% cotton Hanhemule PhotoRag ultra smooth 305gsm paper, cm 20×20, Courtesy the Artist and Galleria Patricia Armocida

Gli scatti, 20×20 cm, lo stesso formato delle cementine (piastrelle della pavimentazione tipica siciliana), e 10×10 cm, sono stampati su carta Hanhemule PhotoRag ultra smooth 305gsm, sono un memorabile sunto di annotazioni visive che conducono il visitatore della mostra nel mondo segreto e intimo di Colapesce.

Abbiamo incontrato Lorenzo che ci ha raccontato il legame tra scrittura musicale e fotografia, e la volontà di condividere, per la prima volta, uno spazio visivo che è al tempo stesso mappa interiore e riflessione sul tempo.

Lorenzo Urciullo, D.U.S. #01, 2019, Fine art Inkjet print on 100% cotton Hanhemule PhotoRag ultra smooth 305gsm paper, cm 20×20, Courtesy the Artist and Galleria Patricia Armocida

L’INTERVISTA

Questa mostra nasce da un tuo percorso fotografico che finora era rimasto più intimo. Come si è nata d’idea di questa esposizione?

In realtà è tutto nato un po’ per caso, senza un intento programmatico. Mi ha contattato Patricia Armocida che aveva visto alcune mie foto su Instagram — immagini che postavo senza un disegno preciso, più per passione personale — e mi hanno proposto di costruire un progetto espositivo.

“Doppia Uso Singola” non è una mostra fotografica ma una mostra di fotografie.
Non avevo mai pensato di esporre davvero: la fotografia è una passione che porto avanti da anni, in maniera parallela alla musica. Ho sempre scattato, collezionato, osservato, accumulando centinaia di immagini. Così mi sono ritrovato con un archivio di oltre duemila fotografie, da cui abbiamo fatto una prima selezione. Poi, insieme alla curatrice, c’è stato un ulteriore lavoro di scrematura, fino ad arrivare a circa duecento scatti per costruire la mostra. È stato un processo lungo ma necessario, che ha reso più chiara anche a me stesso la visione che avevo.

Come avete lavorato alla curatela? Hai lasciato libertà alla galleria o sei intervenuto direttamente?

È stata una curatela condivisa. Ho lavorato molto a stretto contatto con Patricia, non solo nella selezione finale, ma anche nella scelta dei formati, delle stampe, della disposizione. Alcune delle fotografie erano scatti che avevo già da tempo, altri li ho realizzati appositamente per questa mostra. C’è una componente emotiva forte, perché molte immagini sono legate alla mia storia personale, alla Sicilia, alle sue contraddizioni, ai suoi silenzi. La divisione in tre macro-sezioni nasce proprio da un’esigenza curatoriale, ma anche dal desiderio di mettere ordine in un materiale vasto e intimo.

Il titolo Doppia Uso Singola sembra giocare con un certo senso di ambiguità. Da dove nasce?

Il titolo è nato quasi per scherzo, ma poi ha acquisito un peso simbolico. Deriva da una riflessione sulle case di mia nonna e di sua sorella la mia prozia, che oggi vivono insieme in quella che era una “doppia uso singola” — un’abitazione pensata per due, che adesso ospita due vedove. È un luogo in cui si respira una certa malinconia, uno spazio condiviso che racconta una solitudine moltiplicata, silenziosa. Mi interessava questa idea di coabitazione forzata, sospesa tra passato e presente, tra pieni e vuoti. La mostra riflette proprio su questo: l’architettura dell’assenza, la poetica delle stanze vissute e abbandonate.

Il tuo è un racconto ha quasi la forma di archeologia alberghiera. Ci racconti?

Sono un detentore d’Iphone da quindici anni, più o meno da quando la musica è diventata il mio lavoro principale. Ho documentato centinaia di camere d’albergo: stanze stanche di essere stanze ma che hanno la necessità di raccontare delle storie. Stanze consumate, venali ma mai giudicanti, piene di oggetti ricorrenti: Chiavi pesanti o schede logore, asciugacapelli esausti come fiato d’anziano, telefoni che non squillano mai, grucce spossate in fila militaresca, cassaforti insicure e vuote, televisori con decoder separato -in equilibrio sul bordo superiore dello schermo, fra grovigli di cavi e mestizia. Cordicelle di emergenza dentro vasche con la psoriasi da prodotto chimico, Frigobar con mignon di liquori che pregano di essere bevuti, connessioni internet claudicanti, bicchieri di plastica incellofanati -perché “l’igiene è una priorità”; cuscini di velluto da starnuto alla sola vista, “servi muti” che dovrebbero essere in pensione da un pezzo. Le Hall sembrano uno Stargate con Tangentopoli, ascensori che pigramente salgono e scendono verso sale colazioni minime. Succo di fu arance spagnole dal sapore medico, bacon ammassato a fianco a uova strapazzate dalla vita. A volte trovi la macchina dei pancake. Estintori. Una mia cara amica una volta mi ha detto che avevo fotografato un cestino così solo che sembrava depresso. 

Molte immagini sembrano raccontare la Sicilia in modo indiretto, attraverso oggetti, spazi, dettagli. È una scelta voluta?

Sì, ho deciso volutamente di escludere la figura umana. Non mi interessa il ritratto come forma di autenticazione del reale. Mi pare spesso una modalità retorica, anche un po’ invadente. Preferisco raccontare l’azione dell’uomo attraverso ciò che lascia: un cavo, un piatto di plastica messo per spaventare i gatti, una sedia spostata. Sono tracce, segni, disfunzioni quotidiane. Mi attraggono i paradossi dell’abitare, gli oggetti spaiati, le scale che non portano da nessuna parte, i portoni murati. C’è una Sicilia che resiste in questi dettagli, una bellezza sghemba, che si manifesta nella decomposizione più che nella composizione.

C’è un’immagine che senti più rappresentativa del tuo sguardo?

Forse una scattata a Pantalica, la necropoli rupestre vicino Siracusa. Un luogo incredibile, Patrimonio Unesco, un canyon dove scorre il fiume Anapo. Lì ho scritto anche un breve testo poetico che accompagna la mostra, quasi una colonna sonora visiva. Sono molto legato a quell’immagine, perché rappresenta bene la fusione tra natura e memoria, il tempo che sedimenta. È una fotografia, ma potrebbe essere anche una musica lenta, stratificata.

Il tuo lavoro visivo sembra dialogare naturalmente con quello musicale. Quanto sono connesse queste due pratiche?

In realtà sono sempre state due facce della stessa medaglia. Anche nella musica, per me, la componente visiva è fondamentale. Ogni canzone ha il suo paesaggio, il suo colore, la sua luce. Quando scatto, non penso mai solo all’inquadratura, ma anche al suono che quell’immagine potrebbe avere. È una questione di ritmo, di composizione. Ultimamente ascolto tantissima musica strumentale e ambient, quasi niente con voce. Forse perché la parola a volte ingombra. Anche nel mio lavoro alla colonna sonora per il film “Iddu” — sulla figura di Mattia Messina Denaro — mi sono concentrato esclusivamente sul suono, ed è stata un’esperienza liberatoria, piena.

Negli ultimi anni si nota una crescente osmosi tra arte visiva e musica. Come la vivi da dentro questo scambio?

Penso che sia una conseguenza naturale dell’idea di artista globale. È sempre stato così, se pensi ai Velvet Underground o a Laurie Anderson: musica, immagine, performance, tutto mescolato. Oggi forse è più visibile perché ci sono meno barriere, meno definizioni rigide. L’immagine non è più solo una copertina: è parte del racconto. Nel mio caso, la fotografia è una forma di scrittura parallela.

Hai parlato di scatti che sembrano “composizioni”. È così che concepisci la fotografia?

Esattamente. Non scatto per documentare, ma per comporre. Non ho mai un progetto preciso: fotografo come scrivo appunti. È un gesto istintivo, a volte primitivo. Come se raccogliessi materia grezza, che poi decanto nel tempo. Alcuni scatti li riprendo anni dopo, altri li lascio sedimentare. La fotografia per me è come una canzone senza parole: evoca, suggerisce, non spiega. E credo che in questa mostra si senta questo approccio, fatto di suggestioni più che di tesi.

Progetti futuri? Continuerai a esporre o torni alla musica?

Non faccio grandi piani. Sicuramente continuerò a fotografare, ma senza l’urgenza di mostrare tutto. È un gesto che resta intimo, anche quando diventa pubblico. Detto questo, mi piacerebbe proseguire in questa direzione ibrida: magari una mostra con un disco, o un disco con immagini. Vedremo. L’importante è che ci sia sempre un po’ di disordine, di sorpresa.

L’artista

L’insonne,2023, foto di Zavvo Nicolosi

Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, è uno dei talenti più fulgidi e liberi della nuova scena italiana.
Nel 2012 vince la Targa Tenco per la miglior opera prima con il suo album d’esordio “Un meraviglioso declino”, a cui seguono “Egomostro” (2015) e “Infedele” (2017) prodotto con IOSONOUNCANE e Mario Conte. Nel 2015 pubblica, insieme ad Alessandro Baronciani, la graphic novel “La distanza” edita da Bao Publishing. Nel 2016 realizza lo spettacolo, presentato in anteprima al Romaeuropa Festival, dedicato alla sonorizzazione delle immagini del regista Vittorio De Seta, padre del documentarismo italiano. Nel 2013 è stato citato dal prestigioso quotidiano inglese The Guardian come esempio di musica italiana da esportazione.
Mentre NME lo ha definito come uno dei migliori prodotti pop in lingua non anglofona d’Europa e Le Monde ha inserito “Egomostro” tra i migliori dischi del 2015.
Il 29 gennaio 2019 è andato in scena lo spettacolo teatrale “Stanno tutti male”, scritto da Colapesce insieme a Riccardo Goretti e Stefano Cenci, che lo ha visto debuttare anche in veste di attore. Nel 2020 esce “I Mortali” (42 Records/ Numero Uno), l’album interamente scritto a quattro mani insieme a Dimartino, tra i dischi più apprezzati dell’anno da pubblico e critica. Nel disco sono presenti i singoli “Luna araba” con Carmen Consoli, Noia Mortale”, “Rosa e Olindo” e “Adolescenza Nera” che vede la collaborazione di MACE, artista e produttore in testa a tutte le classifiche di vendita.
A marzo dell’anno successivo i due cantautori partecipano al Festival di Sanremo nella sezione big con il brano “Musica leggerissima” e il 19 marzo 2021 uscirà una nuova versione del loro primo disco insieme dal titolo “I mortali²” (42 Records/Numero Uno): un doppio album contenente 10 nuove tracce tra cui il brano in gara al Festival di Sanremo “Musica leggerissima”, la cover di “Povera Patria” che presentata sul palco dell’Ariston nella serata di giovedì e un nuovo inedito la title-track “I mortali”. “Musica leggerissima” diventa subito una hit, entra nell’immaginario collettivo, e conquista ben 5 Dischi di Platino.
A luglio la coppia di cantautori torna con un nuovo sorprendente brano dal titolo “Toy Boy” (42 Records/Numero Uno) insieme a due icone mondiali della cultura e dello spettacolo italiano: la Signora della musica italiana Ornella Vanoni e il regista candidato all’Oscar, Luca Guadagnino. Canzone che li accompagnerà durante l’estate live dove si esibiscono nei più importanti festival italiani registrando numerosi sold out. Nel 2022 duettano con Fabri Fibra nel singolo di lancio del nuovo album del rapper dal titolo “Propaganda” conquistando anche qui il Disco di Platino. Il 2 dicembre esce “Cosa da pazzi”, il nuovo brano della coppia di cantautori Colapesce Dimartino, scritto per la colonna sonora della serie Original “The Bad Guy” – in esclusiva su Prime Video – con Luigi Lo Cascio e Claudia Pandolfi. Nel 2023 tornano sul palco dell’Ariston con “Splash” bissando lo straordinario successo di “Musica Leggerissima” e vincendo sia il premio della critica Mia Martini che quello della Sala Stampa Radio e TV.
Sempre nello stesso periodo debuttano al cinema in veste di autori, sceneggiatori e attori del film La primavera della mia vita che farà risultare un ottimo successo al botteghino.
La colonna sonora del film, composta sempre con Dimartino, è stata premiata con il Nastro d’argento e con un Globo d’oro della stampa estera residente in Italia.
Anticipato dai brani “La luce che sfiora di taglio la spiaggia mise tutti d’accordo”, “Ragazzo di destra” e “Sesso e architettura” (anche questa nella top 10 delle canzoni più passati dalle radio italiane), a novembre 2023 esce “Lux Eterna Beach” a cui poi seguirà un fortunatissimo e lungo tour nei club e nei festival italiani.
L’11 ottobre del 2024 viene pubblicata – sempre da Dischi Numero Uno – la colonna sonora di “Iddu”, interamente composta da Colapesce (con Federico Nardelli) e che ha ricevuto il premio Soundtrack Star Award 2024 durante il corso dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia prima di essere inclusa anche nella shortlist dei David di Donatello.

Le Opere

Info

Lorenzo Urciullo in arte Colapesce
Doppia Uso Singola
A cura di: Patricia Armocida

Galleria Patricia Armocida
Via Filippo Argelati, 24
20143 Milano
Dal 16 maggio 2025 al 27 giugno 2025

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