Avvassena-e-Oceanic-Humanity-Photo-Credits-Andrea-Sciannimanico

AVVASSENA: creare è connettersi. Un viaggio visivo tra identità e natura

Avvassena è un’artista la cui ricerca si basa sulle relazioni che collegano la nostra esistenza: la relazione con noi stessi, la connessione con il micro-nucleo che ci circonda e il ruolo di ognuno di noi all’interno dell’immensa comunità umana, in cui la simbiosi che ci vincola agli altri contrasta con un’egocentrica solitudine, propria dei nostri tempi.

Una riflessione visiva e stratificata sul legame inevitabile di dipendenza e responsabilità che ogni individuo e tutta l’umanità hanno nei confronti dell’ambiente che ci circonda.

Il suo progetto artistico s’intitola Ubuntu Project, è ispirato dal concetto “Ubuntu”: una filosofia e una visione di mondo sudafricana che enfatizza l’interconnessione, il rispetto reciproco e la comunità. Il termine Ubuntu tradotto significa “Io sono perché noi siamo” affermando che l’identità individuale e il benessere sono determinati dalle relazioni che tessiamo con gli altri.

Si tratta di una visione per cui gli esseri umani non sono esseri isolati, bensì all’interno di un sistema di vita più grande ed interconnesso, dove il successo e la prosperità del singolo sono intrinsecamente connesse al successo e alla prosperità di tutti.

All’interno di Ubuntu Project questa filosofia viene tradotta in arte tramite l’esplorazione di tematiche come la co-creazione, collaborazione ed esperienza umana condivisa.

Avvassena e Oceanic Humanity Photo Credits Andrea Sciannimanico

L’INTERVISTA

In occasione della One Ocean Week sei stata invitata da One Ocean Foundation per realizzare un’installazione che si troverà a Milano in Piazza XXIV Maggio – Piazza Darsena fino al 25 maggio. Come sei entrata in contatto con questa realtà?

One Ocean Foundation mi ha contattata riconoscendo il mio impegno artistico su tematiche sociali e ambientali, un percorso che porto avanti da anni con installazioni dedicate, ad esempio, alla prevenzione del tumore al seno presso il Policlinico, alla sensibilizzazione contro l’uso delle armi, fino alla mia residenza in Tanzania, dove ho sviluppato Ubuntu Project con la no-profit Bella Esperanza Charity.

Credo che siano stati colpiti non solo dalla coerenza del mio lavoro con il loro impegno, ma anche dall’evoluzione della mia ricerca più recente, che si sta orientando sempre più verso una riflessione sull’Oceano e sull’ambiente naturale. Continuo a lavorare con lastre radiografiche e resine, che ora intreccio con immagini aeree di superfici oceaniche, creando un dialogo visivo e simbolico tra corpo umano e paesaggio acquatico.
“Oceanic Humanity” sulla linea di “Human Cosmogony” è un’installazione visibile anche in notturna ed è l’intersezione di diverse lastre radiografiche di diverse persone raccolte a seguito di diverse chiamate alla cittadinanza con viste al microscopio con foto estremamente ravvicinate del plancton: zooplancton, phytoplancton e meduse che ho scoperto essere plancton.

Attraverso queste intersezioni si profila una riflessione sempre inserita all’interno di Ubuntu Project sul punto cardine del mio progetto: non è solo un’interdipendenza vitale tra individui che ci lega l’uno all’altro, ma presuppone che siamo interdipendenti dalla natura.
Pertanto, vi è un interesse anche se vogliamo egoistico di ciascuno di noi, non solo a tutelare noi stessi come l’altro per la nostra sopravvivenza, ma anche la natura. L’intersezione di corpi umani estremamente tangibili, nella fisicità anche fragile con delle specie microscopiche che neanche il nostro occhio riesce a vedere, fa capire come la nostra esistenza sia interconnessa e condividiamo l’interesse a tutelare ciò che non vediamo e che invece è presentissimo, aprendo così una riflessione più profonda e su più livelli interpretativi.

L’installazione si compone di tre cubi luminosi che si accendono di immagini policrome, nate dalla fusione tra radiografie umane e microfotografie di plancton: due mondi apparentemente lontani che si incontrano in un’unica, vibrante trama visiva.

Grazie al sostegno della fondazione ho potuto approfondire la mia curiosità verso il mondo sommerso, un interesse che era già emerso con Syphonophorae, una mia precedente installazione. Conosciamo una percentuale minima delle specie marine, e molte di quelle identificate dalla scienza erano per me completamente sconosciute. Ed è proprio questa misteriosa vastità a esercitare su di me un fascino profondo.

Nell’era dell’Antropocene, in cui l’impatto umano altera gli equilibri del pianeta, la mia arte vuole ricordare che la salvaguardia dell’oceano è strettamente legata alla sopravvivenza dell’umanità. Oceanic Humanity si fa spazio di risonanza, luogo sensibile dove percepire il battito di un mondo sommerso, fragile, ma ancora incredibilmente vitale.

Ti sei mai focalizzata sull’autoritratto?

In un mio passato pittorico mi sono dedicata anche all’autoritratto soprattutto anche perché sono passata attraverso diverse fasi di esplorazione del sé. Prima in relazione a sé stesso e questo inevitabilmente ha implicato inevitabilmente affrontare il ritratto. L’autoritratto l’ho toccato una sola volta, ibridato con delle maschere: era un’opera in cui il mio volto compariva e scompariva in mezzo a delle maschere ed era una riflessione sulla molteplicità di identità che sono racchiuse dentro di noi, un percorso che poi è ritornato in due opere più recenti che sono: “Identities” che ha come base lo specchio e le impronte digitali, simboli identitari per eccellenza e “Myselves, Portraits Collection” che è l’esplosione della mia impronta digitale in tanti solchi racchiusi in formati di ritratto con cornici di diverse epoche e stili per richiamare il concetto stesso di ritratto, rappresentativo di un volto. Anche se non è presente il ritratto di per sé ma sono presenti tutti elementi che alludono al viso.”

Quali sono i tuoi riferimenti, hai dei mentori?

Credo di non avere mentori o riferimenti stilistici, o meglio, il mio riferimento è la vita.
Io non mi sono mai fissata su uno stile o una tecnica precisa. Forse ho come riferimento l’eclettismo del primo Damien Hirst per cui il concetto si trasforma, ne ammiro la trasgressione che invita a superare i miei limiti e andare oltre gli scrupoli che mi faccio; tuttavia, ora come ora non nel suo sviluppo non lo sento più come un riferimento.”

Se dovessi scegliere tre parole chiave per definire la tua arte quali sarebbero?

Eclettica, Esplorativa, Esistenziale.”

C’è un desiderio artistico che non hai ancora realizzato?

Tutti.”

Se le tue opere avessero una colonna sonora, quale canzone sceglieresti?

Questa è una domanda cattivissima. Penso “Lightning Crashes” dei Live, molto anni Novanta, tutte le volte che creo un’opera nuova penso a questa canzone.”

Il tuo studio, cosa rappresenta per te?

In questo momento il mio cruccio esistenziale, però è il luogo dove penso, creo, soffro, vivo tutte le fasi della mia attività creativa, alcune positive ed emozionanti e altre più di turbamento e conflitto interiore, tutto.”

Razionalità o emozioni?

Razionalità, a volte troppa.”

Cosa pensi dell’IA applicata all’arte? La tecnicità può superare la creatività?

L’IA applicata all’arte un po’ mi spaventa. Ne ho fatto uso e ne faccio uso come strumento di lavoro ma mai come risultato finale, riconosco che ha enormi potenzialità, non rifiuto lo strumento perché bisogna vivere nei tempi odierni.
Ad oggi sono contenta di un deficit che ho riscontrato usando l’AI, mi rendo conto che manca di creatività: quell’unicum che solo la mente umana è capace di creare attraverso idee e connessioni folli perché ha sperimentato la vita e le emozioni ed è per questo che è in grado di partorirle. Ogni volta mi sembra che manchi un quid che l’IA non riesce a darmi e personalmente ne sono contenta, perché è una somma di cose già esistenti, senza un’effettiva idea originale innovativa. Questo avviene perché non viene da una mente ma da un’ibridazione di cose già strutturate mentre nel rimescolamento, nella ricostruzione, la mente umana fa un processo integrativo di consapevolezza, di coscienza emotiva che l’AI non fa anche se parte dagli stessi input.”

Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa per la prima volta? Cosa hai fatto?

È destabilizzante questa domanda. Ti darò una risposta filosofica: ogni giorno che vivi è la prima volta. Ogni giorno è la prima volta che vivi quel giorno ed è anche l’ultima volta che lo vivi, anche il giorno più uguale agli altri non sarà mai effettivamente uguale ad un altro, tempus fugit!”

Cosa ti fa battere il cuore?

Una bella notizia inaspettata.”

L’ARTISTA

Avvassena (1998) è un’artista multidisciplinare di Milano. La curiosità e la propensione all’ascolto dell’ambiente circostante danno vita alla sua arte espressa su livelli visivi e comunicativi diversi. Ha studiato Interior Design al Politecnico di Milano per poi proseguire con un master in Communication Design. Ha esposto le sue opere in diverse città europee, collaborato con brand, magazine e aziende internazionali con l’obiettivo di trasmettere il messaggio della propria arte a tutti. Crea opere e installazioni incentrate su temi di rilevanza sociale con centri di ricerca e organizzazioni no-profit.

https://www.instagram.com/avvassena/

Le Opere

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